BIBLIOTECA RARA
PUBBLICATA DA G. DAELLI
VOL. XXIX.

DELLA INFINITA' DI AMORE

TIP REDAELLI.

Propriet letteraria DAELLI e C.



DELLA INFINITA' D' AMORE
DIALOGO
DI
TULLIA D' ARAGONA
COLLA VITA DELL' AUTRICE
SCRITTA
DA ALESSANDRO ZILIOLI

MILANO
G. DAELLI e C. EDITORI.

M DCCC LXIV.

Valorosa Donna.

Siccome due sono quelle parti, donde è composta la umana creatura, delle quali l'una è terrestre e mortale, e l' altra celeste e eterna, così ancora, come voi ottimamente sapete, due sono le maniere delle bellezze: e queste, seguitando la natura delle parti loro, sono l'una frale e caduca, e l'altra vivace e immortale. Or questi due splendori de' corpi, e degli animi nostri, per lo mezzo de'sensi agli altrui animi appresentandosi, accendono ne' sentimenti e negli animi quel desiderio, il quale è chiamato amore: e di questo due ne sono ancora le maniere non altramente che si siano quelle della beltà: che quale della corporal vaghezza invaghito, e quale dello interno lume illuminato, ciascuno è tirato a quello oggetto, che più a lui si mostra disiderabile. E sì come detto abbiamo, che le bellezze seguitano la natura di quelle parti, delle quali elle sono ornamento, conseguente è ancora che tali siano gli affetti dell'uno, e dell'altro amore, perchè venendo a meno col tempo il fior della spoglia nostra terrena, sarà medesimamente da dire che il desiderio di quello abbia a mancare; e da altra parte crescendo ogni dì la luce de' nostri animi, sarà ragionevole, che chi di quella una volta si sentirà acceso, di giorno in giorno maggiormente se ne infiammi. Queste cose, non intendendosi per avventura da ognuno, non ci sono mancati di coloro, i quali meravigliati si sono che in questa età, nella quale par loro che altri agli amorosi desiderj debba già aver posto fine, io mostri di amarvi non meno che fatto mi abbia già più anni addietro. E di ciò nelle loro menti mi hanno forse dannato, e riputato da meno. Perchè io voglio lor dire liberamente, che non pur vi amo io non meno che amata vi abbia per lo passato, ma molto più ancora, per essere in voi cresciuta quella beltà, la quale primieramente ad amarvi m'indusse e per non essere in me mancato il conoscimento di quella, e se essi forse non la scorgono, è per ciò che non vi mirano con quegli occhi, co' quali vi miro io: ché se, con vista simile alla mia, a voi si rivolgessero, quella affisserebbeno in parte, che e essi dell' amor di voi si accenderebbono, e me loderebbono del mio. A me dello accrescimento della bellezza vostra ha fatto gran dimostrazione il dialogo da voi scritto della infinità di amore: il quale, a voi scrivendo, non mi affaticherò di ornare con lode convenevoli, non mi parendo massimamente potergliene dare alcuna maggiore, che averlo giudicato degno che egli non stia più lungamente sepolto in tenebre. Voi, quale è la vostra cortesia per me, a me ne faceste parte, come di cosa, che vi fosse a grado di comunicar meco, e non che si avesse a publicare, e io (quale è l' amor mio verso di voi, che mi fa studioso non meno del vostro, che del mio onore) non mi sono potuto contenere che non lo abbia mandato in luce. E forse che a ciò mi ha spinto ancora un particolar desiderio dell' onor mio: che intendendosi di fuori, che io amo beltà atta a producer così gloriosi parti, sono securo che nel cospetto de' più gentili spiriti io ne doverò andare lodato, e onorato assai. Grande è quella securtà, che porge amore a chi veramente ama. Io non solamente ho preso ardire di pubblicare questa opera vostra senza vostra saputa, ma sono ancor passato più oltre. Voi introducete un ragionamento fatto tra voi, il Varchi, e il dottor Benucci: e perciocchè in quello si dicono molte cose della virtù vostra, e delle vostre lode, a voi non pareva che vi si convenisse nominarvi per lo proprio vostro nome, e per modestia vi eravate appellata Sabina. Or non parendo a me che bene stesse in un dialogo un nome finto tra due veri, e giudicando, che, o tutti finti, o tutti veri doverebbono essere, vedeva che se lasciando il vostro così mutato avessi mutati gli altri, averei fatto ingiuria a quei nobilissimi spiriti, a' quali vi era piaciuto dar vita nelle vostre carte: e per ciò presi per partito, quelli lasciando come si stavano, di rimetter Tullia in luogo di Sabina, e ciò quando io non avessi fatto per altro sì lo averei fatto io per una tal cagione, che essendovi piaciuto di fare che il non men dotto che eloquente Varchi di me faccia onorevole menzione, come di cosa vostra, io non so di essere mai stato di alcuna Sabina: so bene di essere stato, e di essere della signora Tullia, e quello, che dico io, sono certo che direbbe anche l'eccellente M. Sperone per vostro medesimamente sentendosi nominare. Tanto ho preso baldanza di mutare io in quel dialogo; nè ad altro si è stesa la mia censura, e questo ardir mio, e quello di averlo da me pubblicato, mi assecura amore che voi lo prenderete per bene, da poi che non altro che amore me n' è istato cagione. Benchè di questa pubblicazione fatta senza consentimento vostro ne dovereste esser voi contentissima: perciocchè quando la cosa non fusse tale, che fusse degna di vera lode, non voi, che la volevate tener nascosta, ma io che la ho mandata fuori, ne doverei essere biasmato. Ma sono certo che con vostra eterna fama il mondo a me delle fatiche vostre ne averà perpetua obbligazione.

Io sono stata lungamente suspesa, nobilissimo e cortesissimo signore, se io doveva indrizzare a V. Eccellenza illustrissima un ragionamento fatto, sono già più mesi, dentro delle mie case sopra la infinità, e alcuni altri dubbj di amore, non men begli, se il giudicio mio non m'inganna, che difficili. Dall'uno de'lati mi spaventava così l' altezza dello stato suo, come la bassezza della condicion mia, dubitando ancora di non interrompere quella dalle molte, e importantissime faccende, che le soprastanno ogni giorno, sì nel procurar la pace e quiete del fortunatissimo mperio suo, e sì in amministrande ragione, e giustizia a'suoi popoli beatissimi. Dall' altro lato mi assecurava, e quasi spingeva non tanto il sapere io quella sommamente dilettarsi di tutte le maniere di componimenti, e massimamente di quegli, che scritti nella lingua sua tanto da lei favorita, e innalzata, trattano di cose utili, o dilettevoli, quanto un desiderio, ch' è in me ardentissimo di mostrare a V. Eccellenza almeno un picciol segno così della affezione, e servitù, che io ho sempre avuta verso la illustrissima e felicissima casa sua, come degli obblighi, che io tengo con quella particolarmente per li beneficj ricevuti da lei; onde pur confidatami finalmente che V. Eccellenza la infinita bontà e cortesia sua debba più tosto riguardare la grandezza dell' animo in queste mie così basse e rozze fatiche, che la picciolezza del dono, ho eletto di correre rischio di essere anzi tenuta molto presuntuosa da tutti gli altri, che poco grata da lei sola. Alla quale umilissimamente baciando le illustrissime mani, prego Dio che la conservi sana e felice.

INTERLOCUTORI

Tullia, Benedetto Varchi e M. Lattanzio Benucci

EGli non potea venir persona niuna nè più a tempo di voi, messer Benedetto virtuosissimo, nè più grata, nè più aspettata da tutti noi.

Var. Molto mi piace che così sia, come voi dite, signora Tullia nobilissima, e tanto più che io temeva di non forse aver, se non guasti del tutto, almeno interrotti in parte i ragionamenti vostri, i quali so che altro che begli non possono essere, e di cose alte, e degni finalmente così di questo luogo, dove sempre si propone qualche materia da disputare non meno utile e grave, che gioconda e piacevole, come di cotali persone: perchè mezzo mi pentiva meco medesimo di esser venuto, e diceva appunto tra me:

Lasso, amor mi trasporta ov'io non voglio dubitando di essere non vo'dire presuntuoso, ma molesto a chi io disidero di piacer sommamente; la qual cosa non essendo, tanto debbo più così rallegrarmi con meco stesso, come ringraziare sì la molta cortesia vostra, e sì quella di questi altri signori e gentiluomini, con buona licenza de'quali mi porrò a sedere: con questo inteso però, che voi seguitiate gl' incominciati ragionamenti, se per avventura non sono tali, che me ne reputiate non degno.

Tul. Anzi non meno per questo, che per altre cagioni vi desideravamo noi tanto. Ma io per me dubito più tosto che non vi abbia a parer di stare anzi a disagio che no, e per questo vi sapesse male di esser venuto: e massimamente toccando il favellare a me per le cagioni che intenderete; la quale oltra lo esser donna (le quali voi per non so che vostre ragioni filosofiche riputate men degne, e men perfette degli uomini) non ho, come ben sapete, nè dottrina di cose, nè ornamenti di parole.

Var. Io non credo, signora Tullia gentilissima, che voi mi abbiate per tanto Cimone e per così rozzo, e poco sperto nelle cose del mondo, e della natura, ch'io non conosca, non dico in tutto, ma in qualche parte quanto potero, possono, e potranno sempre le donne verso gli uomini, sì con le virtù degli animi e sì massimamente con le bellezze de' corpi loro. Dico quando non avessi bene nè veduto mai, nè udito altra donna che voi. Ma di questo avremo tempo da ragionare altra volta. Ora vi dirò solamente, che troppo fate gran torto, non voglio dire alla affezione, che io vi porto grandissima, e al giudizio mio (il quale, se bene in tutte le altre cose è assai meno che mediocre, in questa parte di conoscer le virtù vostre, e non meno amarle che nutrirle, è singolarissimo) ma bene alla gentilezza, e bontà vostra natia, poscia che vi può cader nell'animo, che io, trovandomi con voi, e mirandovi, e udendovi, possa altro che incredibile piacere, ineffabile dolcezza, e incomparabile contentezza sentire. Dunque sarò io sì ignorante, sì vile, sì ingrato, che non conoscerò, non gusterò, non loderò quella bellezza, quella virtù, quella cortesia, la quale ama, ammira e onora chiunque la ha mai o veduta per se medesmo, o udita raccontar da altrui? Io non mi voglio agguagliare in cosa niuna al vostro e mio dottissimo, leggiadrissimo, e cortesissimo M. Sperone, nè al raro ed eccellente valor del nostro signor Muzio: anzi voglio lor ceder come è di loro merito, e di mio debito in tutto, salvo che in conoscere il pregio vostro, se bene non so, nè posso lodarlo, come hanno fatto essi; de' quali l'uno in prosa, e l'altro così in diverse maniere di rime, come ancora in prosa hanno scritto cose tante e tali di voi, che dureran quanto 'l moto lontana. Anzi in questo credo di avanzargli quanto eglino trapassano me di spirito e di eloquenza; e così, se mi fosse lecito dolermi punto di chi mi debbo infinitamente lodare, mi basterebbe l'animo di dimostrarvi quanto ingiustamente sono stato oggi offeso da voi.

Tul. Mai non sarà di mio volere di offender quelle persone, che per le virtù lore meritamente si debbono onorare, come sete voi; e se io dissi, dottissimo Varchi, che dubitava che non vi paresse stare a disagio, non fu per credenza, che io avessi di poca affezione vostra verso me; chè ben conosco quanto l'amor vostro è maggiore de' meriti miei; ma perchè conosco ancora così la natura vostra di posporre i vostri comodi all'altrui voglie, come l'usanza di non denegare mai cosa niuna a persona, e amar meglio i piaceri d'altrui, che le proprie utilità; oltra lo esser voi occupatissimo sempre così ne' bellissimi, e lodevolissimi studj vostri come nelle moltissime e fastidiosissime cure domestiche, per non dir nulla delle brighe, che vi danno continuamente, parte quelli che conoscono e amano le virtù vostre, parte quelli che le conoscono bene, ma non le amano, e per certo è gran cosa. Ma io non voglio ora entrare in questo, per non parer di voler rendervi il cambio di quelle tante, e sì fatte lode, che vio, non vorrei dir con poco giudicio, ma solo per troppo amore (che in voi sono certa non cade adulazione) mi avete date, tanto fuori del convenevole ciascuna, quanto a voi si convengono tutte: la cui bontà e virtù “ è infinita. ” Ma non voglio che andiamo consumando il tempo in cose non necessarie, e massimamente in presenza vostra: che tanto schifate sempre, e abbassate le vostre lodi, quanto pregiate, e innalzate le altrui. Laonde vi prego che vi piaccia di voler dichiarirci un dubbio, il quale, non ha molto, s' era proposto qui tra noi: poscia usciti di ragionamento, mentre che tutti eravamo accordati di dovere aspettar voi, che lo dichiaraste, eravamo entrati in altre novelle. E guardatevi molto bene dal denegarloci; perchè non vi averemmo per quella persona che volete esser tenuto, e che crediamo in verità che voi siate.

Var. Io per me non so quello mi sia, nè quello che volessi esser tenuto altro che vostro buono amico, e fedel servidore; e se credessi di poter sodisfarvi ancora in picciolissima parte, non ostante che fessi venuto per udire, e apparare, non per favellare, non mi sarebbe punto grave, anzi oltre modo carissimo il “ farlo. ”

Tul. Di grazia non entrate in coteste scuse pure troppo ordinarie ad un pari vostro, e serbatevi cotesta modestia ad un altro tempo, e con persone che non vi conoscano; altramente dirò che vi paia essere stato poco lodato, e che aspettiate che vi lodi ancora.

Var. Ora sì che io vi perdono sì cotesto ultimo, e sì tutto quello che avete detto di me tanto lontano da ogni verità, credo per mostrare la eloquenza vostra, il che era superfluo; pure io il vi perdono, come ho detto, perchè non potendo io nè volendo mancare di obbedirvi in tutto quel poco che per me si potrà, voi farete la penitenza del vostro peccato; perciocchè questi signori udendomi vi terranno non solo poco giudiciosa, ma troppo adulatrice.

Tul. Non vi caglia di cotesto, e lasciandone il pensiero a me, venite alla dichiarazione del dubbio oggimai.

Var. Di qual dubbio? Ditemelo prima: e io poscia, se saprò, tenterò di contentarvi: con patto nondimeno, che dobbiate poi ragguagliarmi di que' ragionamenti, ne' quali dite, che eravate entrati poco innanzi che giungessi io: perchè vi vidi molto attenti tutti quanti, e molto festosi.

Tul. Sono contentissima, che se agli altri mai non soglio negare cosa che lecita sia, meno posso, o debbo disdire a voi. Il dubbio è questo: se si può amar con termino. Voi non rispondete?

Var. Io vorrei non avervi promesso.

Tul. Perchè?

Var. Perchè io non intendo i termini del quesito; pensate come io scioglierò la quistione.

Tul. Ho bene inteso voi io. Ma di grazia, se mi volete punto di bene, lasciate le scuse, e le burle da parte; e se bene io veggo mal lume non mi vogliate far cieca affatto.

Var. Gran cosa di tutte le donne; ripigliano tutte le cose a lor modo, e vogliono sempre, con ognuno, da ogni tempo, in ogni luogo, e sopra ogni cosa essere esse le vincitrici. Ma da che chi può così, così vuole, così sia che dappoi che e, dee dovere essere, e io ne sono di là da contento, oltra che lo scongiuramento vostro è stato tale, che mi ha fatto risentire tutti gli spiriti.

Tul. Che è quello che voi dite? Dunque sono gli spiriti? e voi ne avete addosso? Io credeva che gli scongiuri gli cacciassero, e non gli mettessero.

Var. Dite poi che sono io che burlo. Ma lasciando gli spiriti a chi gli vuole, e gli spiritati a chi gli può avere, ditemi, se voi foste domandata, se termino e fine sono una cosa medesima, che rispondereste voi?

Tul. Ora non intendo io già voi.

Var. Dubito che questi signori non si abbiano a rider del fatto nostro, che siamo di un paese, come dice il proverbio, e non c'intendiamo. Dico se il termino di alcuna cosa si può chiamare il suo fine?

Tul. Non vi paia fatica darmene un esempio.

Var. Quando alcuno è arrivato al termino di una qualche cosa puossi egli dire che sia pervenuto al fine di quella.

Tul. Io vorrei un poco più chiaro.

Var. Se un misuratore, misurando un campo, o qual si voglia altra cosa, sarà giunto al termino di essa, di maniera che non ve ne sia più, direte voi che egli sia giunto al fine di quella cotal cosa?

Tul. Io per me lo direi: perchè l'estremo, l'ultimo, il termine, e il fine di che che sia mi paiono una cosa medesima.

Var. Bene avete detto. Dunque le cose che non averan fine, non averan termino, e per lo contrario le cose, che non averan termine, non averanno fine.

Tul. A che volete voi riuscire? Non vorrei che voi mi aggiraste con tanti termini, e con tanti fini.

Var. Voi siete oggi molto sospettosa oltra la natura, e fuori della usanza vostra; e pur sapete che avendomi conceduto quello che è, cioè che fine, e termino sia una cosa stessa, non potete negarmi quello che ne seguita necessariamente; e questo è che chi non ha fine, non ha termine; e così per contrario. Di che avete voi paura? che vi fa dubitare a conceder quello che conoscete di non poter negare?

Tul. Ho paura di quello che mi potrebbe intervenire. Io non so io: questi loici ingarbugliano altrui il cervello alla prima, e dicono sì e no; e vogliono che tu dica sì e no a loro posta: e mai non cessano infino che la loro stia di sopra o a torto o a ragione; tal che per me gli soglio agguagliare a' zingani quando fanno a che l' è fora.

Var. Non potevate mostrarmi con più efficace argomento, che io non fossi loico, conciossiacosachè la loica fa tutto il rovescio a punto di quello che pensate.

Tul. Oh! voi non mi coglierete. Io non intendo di quella buona, ma di quella sofistica, che s'usa oggi.

Var. Lasciamo star quello che si usa oggi; e rispondetemi se mi volete conceder con le parole quello che mi avete conceduto coi fatti.

Tul. Voglio; ma che sarà per questo?

Var. Non altro, se non che se io vi proverò che amore non abbia fine, sarà sciolto il vostro dubbio.

Tul. Adagio un poco; voi risolvete le cose molto tosto. Io per me credo che ci siano ancora di cattivi passi: e non so vedere, nè acconciarmi nel capo questa vostra conseguenza; e averei caro la dichiaraste più lungamente, e agevolmente, che ad ogni modo è buona ora; e qui penso, non è alcuno che abbia che far cosa che più gl' importi, o più gli sia a grado che questa.

Var. Ben so che voi sapete benissimo ogni cosa, ma fate per farmi dire; e io sono contento. Ditemi: amore e amare non sono una cosa medesima?

Tul. Dite voi da dovero?

Var. Da doverissimo.

Tul. Eh lasciate le ciance. Io vi chieggo che voi favelliate più chiaramente, e voi entrate in baie, e ci volete far ridere. In buona fè che io non vi avea per sì faceto, non vo' dir per tanto baione.

Var. Rider volete voi far me; lasciate ir le ciance voi, e rispondetemi a quello che vi domando.

Tul. A che?

Var. Se amore e amare sono il medesimo.

Tul. Maffe, messer no: poi che voi volete pur ch'io vi risponda alle cose chiare.

Var. Mal penso mi rispondereste alle dubbie, se non vi desse il cuore di rispondermi alle chiare. Ma se amore e amare non sono il medesimo, l'uno con l'altro saranno dunque differenti tra loro.

Tul. Messer sì; questa è una loica, che la intendo anch'io, e se tutte le conseguenze fossero così fatte, a tutte risponderei subito.

Var. Non basta dir, messer sì.

Tul. Che volete, ch'io ve lo provi?

Var. Mai sì che io voglio, che voi lo mi proviate.

Tul. Quando bene io non sapessi, o non potessi provarlo, per questo non crederei che fosse altramente, perchè ho udito dir mille volte, e creduto che le cose chiare, e manifeste per sè medesime non si possono provare.

Var. È verissimo; e avete inteso, e creduto bene: ma questa non è di quelle.

Tul. Provate adunque il contrario voi.

Var. Avereste mal fare, se fossimo a piato; chè i signori legisti non vogliono così. Ma non vi darebbe il cuore di trovar alcuna differenza tra loro?

Tul. Mille.

Var. Ditene una.

Tul. Che so io? se non altro, amore è nome, e amare è verbo.

Var. Non potevate risponder meglio, nè v'era altra che cotesta sola.

Tul. Mi basta questa a provare che non siano il medesimo; perchè se bene mille somiglianze non bastano a fare che una cosa sia la medesima, una sola dissimiglianza fa che ella sia differente.

Var. Voi favellate benissimo. Ma che differenza credete voi che sia da nomi a verbi?

Tul. Di cotesto bisogna che voi domandiate un maestro di scuola, che io per me non fo professione di grammatica.

Var. Buon per gli scolari, se i maestri sapessero cotali cose; benchè questo non è l'officio loro, per dirne il vero. Nè io ve ne domando come grammatico; sì che non vi paia fatica di rispondere.

Tul. Che volete voi ch'io risponda? i verbi hanno tempo, e i nomi significano senza tempo.

Var. Ora mi accorgo io, che voi sapete ogni cosa, e fate le viste di non saperne niuna per farmi dire. Ma se non e' è altra differenza che questa, la quale non è sustanziale, ma accidentale, perchè non mi concedete voi il primo tratto che amore e amare significhino una cosa medesima?

Tul. Mi pareva troppo strana cosa, che un nome, il quale è sì picciolo, avesse ad essere da quanto un verbo, il quale è sì grande.

Var. Io non voglio rispondere ad ogni cosa, conoscendo che mi tentate. Credete voi ch'io non sappia che voi sapete come io, che i nomi si prepongono, e sono da più che i verbi?

Tul. E dove volete voi ch'io l'abbia imparato? in quale autore? in su quello, che fa la guerra grammaticale?

Var. E dove? o in su quale autore avete imparato il contrario?

Tul. In niuno. E vi confesso che io non sapeva prima qual si fosse di loro o più degno o men perfetto dell'altro. E ora non so altro, se non che niuno di loro è aa più dell'altro.

Var. E da chi avete imparato cotesto?

Tul. Da voi. Non posso, nè voglio negarlo.

Var. Da me non I'avete voi imparato.

Tul. Perchè?

Var. Perchè i nomi sono più nobili.

Tul. Troppo tosto vi contradite.

Var. In che modo?

Tul. Se i nomi sono più degni che i verbi, dunque non sono i medesimi, come affermavate pur testè in amore e amare. Questa loica non riesce sempre.

Var. E voi troppo tosto riprendete me, e biasimate la loica, la quale merita di essere adorata da chi cerca sapere il vero delle cose, come son certo che fate voi.

Tul. Trovimi il vero in questa contradizione, e insegnimi come possa essere che due cose siano una medesima e siano differenti tra loro; cioè più degna l'una che l'altra; e io la adorerò.

Var. Fatelo a vostra posta, perchè se bene una cosa considerata per sè, e semplicemente, e in un modo solo non può esser differen e da se stessa, e più, o meno nobile di quello che ella sia, non è perciò che considerata diversamente, e secondo vari rispetti non possa accadere quello, che io ho detto, e che è il vero.

Tul. Io credo quello, che voi dite, ma non lo intendo.

Var. Alle ragioni si dee credere, non alla autorità. Dico che una cosa medesima considerata variamente, e agguagliata a diverse cose può essere e più degna, e men degna di se stessa, e così sarà differente da se medesima.

Tul. Uno esempio vorrei.

Var. Dio non ama se stesso?

Tul. Ama.

Var. Dunque è amante e amato?

Tul. È.

Var. Chi pensate voi che sia più nobile o l'amante, o l'amato?

Tul. Lo amato senza dubbio.

Var. Perchè?

Tul. Perchè lo amato è cagion non solo efficiente e formale, ma ancor finale; e il fine è nobilissimo di tutte le cagioni: onde allo amante non rimane se non la cagion materiale, la quale è men perfetta di tutte.

Var. Bene avete risposto, e dottissimamente. E così Dio, considerato come amato, è più nobile di se stesso considerato come amante.

Tul. Sì.

Var. Adunque una cosa medesima può esser differente tra sè considerata secondo diversi attì?

Tul. Messer sì. Ma che volete inferir per questo?

Var. Che quello, che vi pareva poco fa impossibile e falsissimo, è ora verissimo, e agevolissimo per lo esempio datovi.

Tul. Sì, ma io vi dirò il vero: quando si favella di cose mortali, non mi par ben fatto che si entri nelle divine, perchè la perfezione loro è tanto grande, che noi non potremo in tenderle; e ognuno può dirne a suo modo.

Var. Ben dite che dalle cose mortali alle immortali è troppo gran salto, non vi essendo comparazione, nè proporzione alcuna: e di Dio non potemo intendere altro, se non che egli è tanto perfetto, che non potemo intenderlo: e niuno basta ad adorarlo, non dico come merita la bontà sua, ma come richiede il debito nostro. Ma noi non parliamo forse di cose mortali, come pensate, parlando di amore.

Tul. Io me lo so; nè voleva significar cotesto. Voi m'intendete ben voi. Datemi esempj, che si possano intendere.

Var. Che stimate voi, che sia più degna cosa, o l'esser padre, o l'esser figliuolo?

Tul. L'esser padre. Ma per l'amor di Dio non entriamo nella Trinità.

Var. Non dubitate. Adunque uno che avesse padre, e figliuoli, come se ne trovano molti, sarebbe come padre più degno di se medesimo che come figliuolo?

Tul. Non si può negare. Ma non veggo perciò come queste cose, ancora che vere, facciano a proposito del nostro dubbio.

Var. Voi lo avreste a vedere. Dico che i verbi, e i nomi considerati realmente e per sè, come dicono i filosofi, sono in effetto una cosa medesima, e così non sono più nobili gli uni che gli altri; ma considerati poi e' verbi con quella giunta di tempo, che deste loro voi medesima poco fa, e come significano azione, o passione, la quale non può essere senza qualche sustanza, o assistenza, che significano i nomi, dico che i verbi sono men perfetti. Avetemi inteso ora?

Tul. Parmi di avere inteso, ma non rimango già soddisfatta; anzi dove prima mi pareva esser risolutissima per gli esempj dati di Dio, e di uno, che avesse padre e figliuoli in un tempo medesimo, ora per questa ultima conchiusione sono rimasta dubbiosissima, tanto che mi par bene avervi inteso, ma invero non ho. Sì che datemi qualche altro esempio, se volete che io ne resti capace; e vaglia a perdonare se troppo vi fossi importuna, e increscevole.

Var. Come importuna? Non incresca pur a voi il domandarmi, che a me non rincrescerà il rispondervi. Duolmi solo che non vi posso espedir così tosto, come farebbe per avventura uno di que' maestri di scuola, a chi volevate dianzi che io ne domandassi. Ma ditemi, che tenete voi che sia più perfetta o la forma sola senza la materia, o la forma insieme con la materia?

Tul. Non intendo a mio modo

Var. Quello che voi giudicate più aegno o l'anima da per sè senza il corpo, o l'anima col corpo insieme?

Tul. Ora intendo io: ma questo mi pare uno di que' dubbj senza dubitazione aleuna.

Var.Or dubito io, che voi non m' intendiate.

Tul. Perchè?

Var. Rispondete, e dirollovi.

Tul. Chi non sa che tutto il composto, cioè l'anima, e il corpo insieme è più nobile, e più perfetto, che l'anima sola?

Var. Voi non lo sapete per una.

Tul. Perchè?

Var. Perchè più perfetta e più nobile è l'anima sola.

Tul. Questo non mi par possibile, non che verisimile; e voi medesimo mi confesserete che almeno andranno di pari, e tanto varrà l'anima col corpo insieme, quanto da sè essendo la medesima anima. Perchè se il corpo non le arreca cosa niuna, non doverà nè anche torle niente.

Var. Cotesto non farò io già; perciocchè, se bene l'anima è quella medesima, tuttavia è più degna da sè, è più nobile senza il corpo che con esso insieme, non altramente che una massa d'oro è meglio schietta, e da per sè, che imbrattata di fango, o mescolata col piombo; e se non altro è cagione del composto. Ma noi facciamo troppe digressioni, e infastidiremo per avventura questi gentiluomini, i quali sono stati cheti sempre, e stanno forse per avvertirci che tacciamo.

Tul. Non pensate a cotesto, e badate a seguitare; e, se è possibile, spianate le cose, e snocciolatele minutamente, non guardando a quello che io so, o non so; che a dir il vero non mi par saper nulla, se non ch'io non so cosa alcuna.

Var. Non sarebbe mica poco cotesto; e vi potreste agguagliare a Socrate, che fu il più savio uomo, e il migliore di tutta Grecia.

Tul. Non lo dissi in cotesto senso io. Voi andate troppo assottigliando le cose. Ma, se egli fu sì buono e sì santo, perchè non lo andate voi imitando? che, come sapete, conferiva ogni cosa con la sua Diotima, e imparava da lei tante belle cose, e specialmente nei misteri d'amore.

Var. Che fo io tuttavia?

Tul. Fate il contrario di quello che faceva egli: perciocchè egli apparava, e voi insegnate.

Var. Voi lo sapete male. Donde credete voi ch'io cavi quel poco ch'io dico, se non "da voi?"

Tul. Or su su; non tante cose. Tornate alla materia lasciata, e mostrateci, se si può, più agevolmente, che amare e amore siano una medesima cosa.

Var. Amare non è effetto d'amore?

Tul. Io credeva prima di sì.

Var. Ora perchè non lo credete?

Tul. Per amor vostro.

Var. Come per amor mio?

Tul. Per amor vostro, sì.

Var. Oh questa sarà dessa se l'amor mio dee servire a farvi dimenticare il vero.

Tul. Io non ragiono di cotesto io. Ma voglio dire che non lo credo più, perchè voi avete detto di sopra che non è così.

Var. Cotesto non ho detto io. Non mi vogliate, vi prego, far Calandrino.

Tul. Dite più tosto, io non me ne ricordo, o io nol voleva dire, che detto lo avete voi.

Var. Pur beato, che ci sono testimoni, che ne potran far fede.

Tul. Io per me non voglio altro testimonio, nè altro giudice che voi stesso.

Var. Dite pure che non sono per negarvi cosa alcuna, che abbia detta, solo che me ne ricordi: ma sono certo, che non la ho detta.

Tul. E s'io vi mostro che l'avete detta, crederetelo voi?

Var. Non io non lo crederò; non mai.

Tul. E se lo fo dire a voi medesimo, e ve lo mostro apertamente, che direte?

Var. Dirò che voi sappiate far colle parole quello, che fanno i giuocolatori di bagattelle colle mani.

Tul. State saldo. Non avete voi detto, che amore e amare sono in effetto, e essenzialmente una cosa medesima? Questo non mi doverete voi gran fatto negare.

Var. Non solo non lo vi niego, ma ve'l raffermo.

Tul. E ora non dite voi, che amare è effetto di amore?

Var. Dicolo.

Tul. Non è niente questo? Qui bisognerà bene altro che loica.

Var. Mi pare assai a me, e pur troppo. Ma in su che fate voi tante meraviglie, e tanto scalpore?

Tul. Perchè non ho mai più inteso, che la cagione e l'effetto, come dire il padre e il figliuolo, siano una cosa medesima.

Var. Nè io, se non da dottori di legge.

Tul. Facciamo a far buon giuochi. Voi avete pur detto prima che amore e amare sono il medesimo, poi che amare è effetto di amore. Non è vero?

Var. Signora sì; e ridicolo.

Tul. Come sta dunque questa cosa?

Var. Sta bene, e per voi, che avete dubitato sottilissimamente, e per me che ho detto la verità.

Tul. Sta pur a vedere che Calandrino sarò io. Come può esser vero questo?

Var. La medesima apparenza, ed equivocazione, che vi appannava di sopra, ora vi abbaglia, perchè nel vero, considerando essenzialmente, e in sustanza, amore, e amare, come s'è detto poco fa', sono il medesimo: ma considerato l'amore da sè, e l'amare da sè, con quella aggiunta del tempo gli fa parere diversi: e questo non procede dalla diversità dell'esser loro, ma dalla diversità del nostro considerargli. E se voi sapeste che uomo e umanità sono una cosa medesima, benchè diversamente, non vi fareste così gran meraviglie.

Tul. Ecco di quelle, ch'io diceva. Come volete voi ch'io possa credere che la cagione e l'effetto siano un medesimo?

Var. Non voglio così io: perchè quello che non è non può intendersi, e non dec credersi.

Tul. Dunque aveva io ragione?

Var. Signora no.

Tul. Oh, come sta questo fatto?

Var. Lo farò dire a voi stessa, poi che no'l volete credere a me.

Tul. E che, per via di loica?

Var. Voi vi fate beffe, e uccellate molto questa loica.

Ma ella s'è beata, e ciò non ode.

E di vero le fate torto; ma ella vi renderà ben per male, facendovi prima conoscere, poi confessare a viva forza la verità.

Tul. Ella non mi ha perciò fatto confessare, nè farà s'io non impazzo che la cagione e lo effetto siano una cosa medesima.

Var. Bel merito, che voi le rendete. Ella sola è cagione, e fa che no'l confessiate, perciocchè fu trovata per iscoprire la verità, e per ricoprire la bugia, e chi la usa altramente fa quello che vuole, ma non quel o, che dee; e merita quel medesimo castigo, che farebbe un medico, il quale si servisse della scienza e arte sua non a guarire gli infermi, ma ad uccidere i sani; anzi tanto maggiore, quanto l'anima è più degna del corpo.

Tul. E'mi pare, a dirvi il vero, che voi andiate menando il can per l'aia, come si dice, forse perchè non vi rincorate di provarmi quello, che è impossibile, e farmi dir quello, ch'io non voglio.

Var. Quello, che è impossibile è falso, e perciò non si può provare per vero, nè io cereo di provarvelo, e molto meno di farvi dir quello che non volete, che mi parrebbe troppo grande presunzione, e iscortesia. M'ingegnerò bene di mostrarvi, e farvi dir da voi stessa che quello, che io ho detto, è verissimo. Ditemi per vostra fè, che cosa pensate voi che sia amore?

Tul. Paionvi queste domande da farle così subito, e all'improvviso ad una donna? e massimamente ad una mia pare?

Var. Voi mi volete far dire che molte donne sono da più di molti uomini, ed entrare ne'meriti vostri, la quale avete posto sempre più studio in ornare l'animo di rarissime virtù, che il corpo di vaghi, o superbi ornamenti; cosa nel vero radissima in tutti i tempi, e degna di grandissima lode. Poi io non vi domandai che cosa fosse amore, ma quello che pensavate che fosse: che bene so che le donne ordinariamente amano poco.

Tul. Voi lo sapete male: e giudicate forse l'amor delle donne dal vostro.

Var. Pensate che areste detto, se avessi aggiunto (come fui per fare) e di rado, allegando que' versi del Petrarca,

Ond'io so ben ch'un amoroso stato
In cor di donna picciol tempo dura.

Tul. Malizioso che voi sete; credete voi che io non vi abbia inteso? ma bisognava che madonna Laura avesse avuto a scrivere ella altrettanto di lui, quanto egli scrisse di lei, e avereste veduto, come fosse ita la bisogna. Ma perchè non mi attenete voi la promessa?

Var. Resta da voi, che non mi avete ancor risposto quello che pensate sia amore

Tul. Amore, sì per quanto ho inteso dire da altrui più volte, e sì per quella cognizione che io ne abbia, non è altro che un desiderio di goder con unione quello, o che è bello veramente, o che par bello allo amante.

Var. Dottissimamente: e amare che è?

Tul. Amare sarà conseguentemente un disiderare di godere con unione quello o che è bello veramente, o che pare allo amante.

Var. Conoscete voi ora la differ enza che è, o più tosto che non è tra amore e amare?

Tul. Conoscola, e tanto chiaramento che, se la loica insegna di queste cose, ella non dee esser per certo altro che una cosa santa. Ma perciò non posso capire ancora in che modo l'effetto e la cagione possano essere una cosa sola.

Var. Sappiatene grado alla loica, che non vi lascia credere il falso. Ma dovereste pur conoscere mediante la difinizione dell' uno e dell'altro, che, essendo amendue un medesimo effetto, hanno necessariamente una medesima cagione.

Tul. Quale è adunque la lor cagione? e di chi sono eglino figliuoli?

Var. Non vi darebbe il cuore di apporvi?

Tul. Maffe no; che non solamente i poeti, ma i filosofi ancora gli danno tanti nomi, tanti padri, e tante madri (benchè tal volta non gli diano ancora padre niuno) ne parlano sotto tante favole, e velamenti, e misteri, che io per me non crederei indovinar mai qual fosse il vero, o qual voleste intender voi.

Var. Dite quello che credete voi, non quello che hanno detto gli altri.

Tul. Io per me credo, che la bellezza sia la madre di tutti gli amori.

Var. E il padre chi sarà?

Tul. Il conoscimento di essa bellezza.

Var. Non vorrà poi la signora Tullia ch'io la lodi. Pur meglio avereste risposto a dire, che la bellezza è il padre, e il conoscimento la madre, come dichiareremo un' altra volta, perchè tenghimno che lo amato senza alcun dubbio sia l'agente, e per conseguenza più nobile, e lo amante sia il paziente, e per conseguenza men nobile, ancor che il divin Platone par che dica il contrario.

Tul. Io ho errato con la lingua, non con la mente, che tengo anche io, come dissi poco fa, che lo amore nasca dal bello conosciuto, e desiderato nell'anima, e intelletto di colui, che lo conosee e desidera: ma questo non mi pare che abbia a fare cosa del mondo col dubbio nostro.

Var. Il suggetto di favellar di amore è tanto ampio, e i suoi misteri tanto profondi, che sovra ciaseuna parola nascona infiniti dubbj, ciaseuno de'quali averebbe bisogno d' infinito tempo e dottrina. E io mi accorgo che a voler dichiarare pur il nostro solo ci mancherà tempo. Perciò dico brievemente ripigliando da capo, che termine e fine sono una cosa medesima; e che chi non ha termine non ha fine; e così per lo contrario, chi non ha fine non ha termine: e che amore e amare in sustanza essenzialmente sono una cosa medesima, se bene l'uno considerato come nome, che significa senza tempo, e l'altro come verbo, che significa con tempo, paiono diversi, e nel vero sono, ma sustanzialmente. E in questo modo si dice the amore cagiona amare; onde amare viene ad essere effetto di amore, non altramente che si dica che la visione cagiona il vedere; onde il vedere si chiama effetto della visione, se bene vedere e visione, realmente e in effetto sono una cosa medesima. E così pare a me che sia risoluto il dubbio vostro, che non si possa amare con termine; onde desidero che mantenendomi la promessa venghiate ad useire di obbligo, se già non siete stanca come io dubito.

Tul. Stanco dovete esser voi, e, presso ch'jo non dissi, anche smemorato: ma voi vi ricordate pur della promessa.

Var. Che vorrà dir questo?

Tul. Come che vorrà dire? Voi dite che avete risoluto il dubbio, e ci manca il più, e il meglio. Io sono contenta di concedervi tutto quello che avete detto fin qui: ma questo non vi serve a nulla infin che non avete provato che amore non abbia fine; il che non so come vi possiate provare.

Var. La voglia che ho di udir favellare alcuno altro di questi, e il parermi agevolissimo quello che a voi, perchè forse vorreste, pare oscuro e impossibile, mi fecero dir così. Ma quali ragioni allegate voi che provino che amare abbia fine?

Tul. Niuna; ma è come vi dico.

Var. Dunque volete ch'io creda alla autorità?

Tul. Messer no; ma alla sperienza, alla quale sola credo molto più che a tutte le ragioni di tutti i filosofi.

Var. E anche io. Ma che sperienza è questa?

Tul. Non sapete voi meglio di me, che infiniti uomini, e antichi e moderni, sono stati innamorati; e poi per isdegno, o altro, che se ne sia stata la cagione, hanno lasciato lo amore, e abbandonato le amate?

Var. Non dico meglio di voi; ma sì che infiniti uomini, e infinite donne e negli antichi tempi, e ne'moderni furono innamorate; e poi, checchè se ne fosse la cagione, lasciarono lo amore; e molte volte, il che è tanto maggior cosa quanto peggiore, lo rivolsero in odio. Ma che volete inferir per questo, che amore ha fine, e che si può amar con termino? Io penserei che voi ingannaste voi medesima; ma conoscendo l' ingegno vostro, e vedendovi sogghignare, sono certo che volete tentar d'ingannar me. Ma mi basta che conosciate che io non aveva tutti i torti del mondo, e non burlava quando dissi nel principio, che io non intendeva i termini della quistione, perchè io non ho mai inteso di tal fine; nè credo che voi intendes. e di tal termine quando mi proponeste il quesito.

Tul. Io ve'l confesso; che non sarebbe stato dubbio il mio, ma sciocchezza sappiendo che molti amano e disamano a lor posta.

Var. Non vorrei vi faceste così sciocca essendo tanto saputa, se già non tentate d'ingannarmi anche in questo, perchè non è cosi certo, come pare che voi presupponghiate.

Tul. Domin fallo, che anche di questo vogliate disputare! Io direi bene…

Var. E che direste?

Tul. Che voi foste il contrario di quello che m' è stato detto da molti; che non volete mai disputar cosa alcuna con persona; onde cavano che voi non sappiate.

Var. Ci sono oltra cotesto, che non è picciolo, mille segni, e argomenti maggiori. Ma che bisognano, se la parte istessa lo confessa ella, e niuno dice il contrario?

Tul. Cotesto non dite voi, che molti, e tra questi io, vi abbiamo difeso molte volte ardentissimamente. Benchè a voi non è necessaria nè mia, nè altrui difensione; poi che voi avete una cosi onorata testimonianza delle vostre virtù. Noi sappiamo quanto è giudizioso in tutte le cose, quanto prudente, quanto intendente il nostro non voglio dire illustrissimo, eccellentissimo e folicissimo, che sono lode di fortuna, ma giustissimo, liberalissimo, e virtuosissimo prencipe, signore e padrone duca Cosimo de'Medici, e egli si serve di voi, e della penna vostra in cose degne di eterna memoria. Ma oltra che il giudicio di un così grande, e così buono, e così savio prencipe è veramente argomento infallibile, e dimostrativo, il che solo a voi dee essere di grandissima consolazione, noi sappiamo ancora che questo non è vizio moderno, ma antichissimo; che Socrate, Platone, Aristotele, e tutti gli altri uomini da bene non ebbero mai altra faccenda, che combattere con una generazione, la quale chiamavano Sofisti, che mai non si potè attutire.

Var. Nè mai s'attutirà se non con lo star cheto, e farsene beffe. Leggete quello, che fu fatto anticamente a Catone, a Seneca, a Plutarco, a Galeno; quello che avvenne poi a Dante, al Petrarca, al Boccaccio; e più modernamente a Teodoro Gaza, al Pontano, e per lasciar tanti altri, al Longolio, e due dì sono, per dir l' estremo di tutti i mali, al reverendissimo Bembo.

Tul. Certamente, per non dir degli altri, che la bontà, la dottrina e la cortesia di sì buono, dotto, e cortese signore, sì come sono infinite, così meritano di essere infinitamente conosciute, amate, e onorate. Egli è pur nobile ancora di quella nobiltà, che il vulgo stima tanto. Egli è pur ancor ricco, che il vulgo pur prepone ad ogni cosa. Tanto che bisogna confessare per forza che chi è lodato, e tenuto caro dagli uomini da bene, abbia ad essere biasimato, e tenuto vile dagli altri. Ma lasciamo ir costoro, che non fanno a propo. sito nostro. E ditemi come non è nè così vero, nè così agevole come io penso, che non si possa amar con termine, pigliando termine ancora in questo altro significato.

Var. Noi ci discostiamo troppo dal cammino: pure a me basta di contentarmi. Ma ditemi: se io vi domandassi se si può vivere senza mangiare, che rispondereste voi?

Tul. Odi bella domanda! che credete voi che io rispondessi? direi di no. Se già tutti gli uomini e tutte le donne non fossero fatte come quello Scozzese a Roma al tempo di Papa Clemente, o come quella fanciulla, che vive ancora oggi nella Magna senza mangiare; acciocchè non pensiate di cogliermi al boccone.

Var. Non dubitate di me. Io favello in sul sodo, e non solamente non mi piacciono le sofistarie, ma le odio mortalissimamente; e voi avete risposto benissimo. Ma se uno, per mostrarvi cotesta opinione non esser vera, vi facesse una istanza, o obiezione, che chiamar ce la vogliamo, e dicesse, i monti non mangiano, che gli rispondereste voi?

Tul. Io lo lascio giudicare a voi.

Var. Pur dite su.

Tul. Voi volete il giambo.

Var. Il giambo volete voi. Io vi ho già detto più volte, ch'io dico da buon senno. Sì che rispondetemi, o noi entriamo in altro; che ho più voglia, e maggior bisogno d'imparare, e udir favellare questi altri, che di favellare io.

Tul. Io non so dove vogliate riuscire a domandarmi perchè i morti non mangiano; perche ognuno sa che non possono, e non hanno più bisogno di mangiare, e brievemente perchè sono morti e non vivi.

Var. Ecco che voi medesima avete detto da voi quello, che non credevate a me, e così nè più nè meno avete a rispondere voi; che come i vivi non possono viver senza mangiare così gl'innamorati non possono amar con termine. E a chi vi allegasse incontra gli esempj antichi e moderni, dicendo i tali, e i tali, essendo innamorati, cessarono lo amore, e si disinnamorarono, per dir così, avete a rispondere, i tali, e i tali erano vivi, e mangiavano, ora sono morti, e non mangiano più.

Tul. Vi ho inteso. Volete dir che, mentre si ama, non si ama con termine: e che quando poi non si ama più, non fa a proposito la quistione. Infine questa loica è la mano di Dio. Ma ditemi; non credete voi che ci siano di quelli, che amino per venire ad uno intento loro, e cavatasi quella voglia non aman più?

Var. Signora no.

Tul. Voi mostrate di esser poco pratico ne' casi d'amore: perdonatemi, che io ne ho conosciuti assai, e ne conosco.

Var. Ne conosco, e ne ho conosciuti anch'io assai.

Tul. Adunque che dite?

Var. Dico che non amano, e che non sono innamorati.

Tul. Dicon pur di sì.

Var. Fanno un gran male, e meritano un grandissimo castigo.

Tul. Sì veramente, perciocchè ingannano le povere donne semplicemente.

Var. Io non dico tanto per cotesto, che anche delle donne fànno il medesimo agli uomini, quanto perciocchè ad uno atto così vile, e così sozzo pongono il più bel nome, e il più pregiato che si possa trovare.

Tul. Voi non volete lasciarmene passare una, ma io ve ne pagherò. Tornate pur a mostrarmi che amore non abbia fine, e conseguentemente termine, in quel modo, che intendiamo fine in questa disputa, chè se fate questo vi terrò per un gran valent'nomo.

Var. Io non voglio rispondervi, che vi vendichereste pur troppo; tale vi conosco.

Tul. Sì sì: gran mercè che non dovete aver che dire; e se avete, dite pure.

Var. E anche per questo non dirò.

Tul. Eh dite, che come vi ho detto, sareto valent'uomo, se mi proverete che amore non abbia fine.

Var. È egli perciò si gran valentigia vincere una donna?

Tul. Voi non avete a vincere una donna, ma la ragione.

Var. E la ragione non è femina?

Tul. Io non so se ella è femina, o maschio: lasciate un poco dire a me, per vedere se sapessi anche io coglier voi col domandare a mio modo. Ma non mi appuntate se io dicessi qualche sciarpellone.

Var. Cominciate pure, che io vi risponderò bene, e volentieri.

Tul. Quello, che non ha fine, non è egli nfinito?

Var. Senza dubbio aleuno.

Tul. Dunque amor non avendo fine (secondo che dite voi) sarà infinito?

Var. Sarà; chi ne dubita?

Tul. Dunque amore è infinito?

Var. E quante volte volete voi, che io lo dica?

Tul. Io per me non vorrei in vostro servigio, che voi lo aveste detto nè una volta sola, non che tante.

Var. Per qual cagione? Se io avessi pensato di farvene dispiacere, non lo averci detto.

Tul. Il dispiacere, che io ne ho, è per amor vostro: che mi avete, ragionando, detto mille volte che, secondo i filosofi, non si dà cosa alcuna infinita, essendo tutte finite: e per tal segnale, domandandovi io la cagion di questo, mi rispondeste, perchè l'infinito, come infinito, importa, denota, e arguisce imperfezione, nè si può comprendere da intelletto niuno. Areste mai ardir di negarmi questo?

Var. Arei quando fosse falso; ma perchè è vero ve'l concedo; e dico che avete detto benissimo.

Tul. Ringraziato sia Dio che ho colto una volta voi, e lo avete confessato di vostra bocca.

Var. Dove mi avete voi colto? e che ho io confessato?

Tul. Avete confessato che non si dà cosa infinita. Domen che vogliate ridirvi e negarlo!

Var. Non io non vo' negar quello, che è vero: ma per questo io non veggo, dove sia rimaso colto.

Tul. Non dicevate voi pur testè che amor non ha fine?

Var. Diceva.

Tul. E ora non lo dite?

Var. Dicolo.

Tul. Pur beato! Io cominciava a dubitare: e che quello che non aveva fine era infinito?

Var. E cotesto ancora.

Tul. Dunque amore non avendo fine è infinito?

Var. Necessariamente.

Tul. Come può adunque stare che amore sia infinito, e che non si trovi cosa niuna infinita? qui non credo io che bisogni troppo loica.

Var. Nè io.

Tul. Pur lo concederete una volta finalmente.

Var. Se credessi farvi piacere, farei troppo maggior cosa che questa non è.

Tul. A me non fate voi piacer niuno in questo, anzi dispiacere: e ve ne saprei malgrado. Voi mi concereste bene, vi so dire. Ma io credo, a dirvi il vero, che, come prudente, vogliate donar quello che non potete vendere. Sì che dite pure, se avete che. Veh! che vi ho saputo anch'io carrucolare questa volta tanto, che non vi è rimaso gretola alcuna da poterne uscire.

Var. Chi non cerca, se non la verità, non si cura di gretola.

Tul. Ora vi ho io per uomo veridico: e che….

Var. Non mi abbiate ancora per questo: che se starete ad udire, e mi vorrete rispondere vedrete che non pur gretole sono rimase aperte, ma finestre, e usci sparancati; e allorra voglio che mi abbiate per veridico.

Tul. Dio mi aiuti con tanto rispondere. Voi avete più ritortole, che io non ho fastella. Ma dubito questo tratto non braviate a credenza: e perciò dite quanto volete, che io vi risponderò quanto saprò.

Var. Dio non è infinito?

Tul. Io vi aspettava bene a cotesta callaiuola; ma ella non vi gioverà, se non vorrete fare fraccurradi, e aver due visi come Iano.

Var. Non dubitate; dico, che io procedo, e procederò lealmente.

Tul. Ditemi adunque: favellate voi nella vostra domanda come teologo, o come filosofo?

Var. Come voi volete.

Tul. Dite voi liberamente, come in verità favellate?

Var. Come filosofo.

Tul. Voi mi avete tutta racconsolata. Oh! ce me dubitava, che non rispondeste altramente. Oggimai voi ci starete.

Var. Non sarà la millesima volta, che io sono stato. Ma in su che fate voi tanto schiamazzo, e vi ringalluzzate così?

Tul. Io credeva bene, e credo, che Dio sia infinito (come affermavano i teologi) ma io sapeva ancora che quelli, che fanno professione di peripatetici. e che seguitano Aristotile (come tengo che facciate voi) dicono che Dio non è infinito; perciò che niuna cosa è infinita in luogo niuno; e così sete rimaso.

Var. Che vuol dir rimaso?

Tul. Vuol dire, che voi non pensiate di avermi a mostrare lucciole per lanterne: che voi avete detto che favellavate come filosofo, e non come teologo. E non vi varrà ora se voleste lasciare i filosofi, e rifuggire a'teologi.

Var. Perchè non mi varrebbe egli?

Tul. Guarda se io la indovinai.

Var. Voi non la indovinaste bene questa volta. E io ho favellato, e favello come peripatetico; e vi dico che voi avete parlato santamente; e tanto dico io, e credo a punto quanto credete, e dite voi; che vorreste voi da me?

Tul. Voi fate sempre a cotesto modo, mostrando che io abbia vinto dapprima, poi nell'ultimo rimango perdente.

Var. Non sapete voi il proverbio fiorentino, che chi vince da prima, perde da sezzo.

Tul. Io so anche quell'altro, che dice, San Giovanni non vuole inganni: e per ciò non faceste pensiero di mostrarmi la luna nel pozzo; che "per" tornare a bomba (secondo i peripatetici) non si dà infinito: e così resterete perdente voi.

Var. Questo è un giuoco, dove non perde mai niuno.

Tul. Sarà adunque come la ronta del Va lera.

Vur. Se mi aveste lasciato fornire avreste veduto, che è tutto il contrario; che a quella non perdeva mai niuno, e qui vincono tutte due sempre. E io per me vorrei prima perdere a questo giuoco, che vincere agli altri. Dico adunque che la equivocazione, e lo scambiare i significati dei nomi, e il non intendere i termini, è cagione di molti errori; perchè chi non intende le parole mai non potrà intender le cose: e perciò dovrebbono i maestri avvertirci molto più che non fanno, e chi favella sempre dichiarare innanzi che sia quello, di che intendono ragionare. Sappiate che a parlare così confusamente, e in generale, come avemo fatto noi, anche Dio secondo i filosofi è infinito.

Tul. Io dubito che voi non cerchiate una via, donde uscirvene, e darmi un canto in pagamento. Io dico ciò secondo i peripatetiei.

Var. Così dico anche io: e quando dico filosofi, intendo ordinariamente peripatetici.

Tul. Io dico Aristotele.

Var. E Aristotele dico io.

Tul. Istrabilio.

Var. E io trasecolo. Chi non sa che Dio fu sempre, e sarà sempre?

Tul. Oh buono! ognuno sa che come Dio non ebbe mai principio, così non avrà ancor mai fine.

Var. Adunque è egli infinito; che dite voi?

Tul. Voi mi mettete il cervello a partito. Datemi qualche esempio più basso, e più chiaro.

Var. Il tempo non fu sempre secondo Aristotele? E quel che fu sempre, secondo lui, non può aver fine. Dunque sarà ancor sempre: e quel, che non ebbe mai principio, e mai non avrà fine, non lo chiamereste voi infinito?

Tul. Sì io. Parmi che da questo seguiti che anche il moto sia infinito, non essendo il tempo altro che la misura del moto.

Var. Ben dite. E la magnitudine ancora sarà infinita.

Tul. Questo non vi concederei io così di leggieri, perciocchè non lo intendo bene.

Var. Dove è il moto, ovvero il movimento, non vi è ancora il mobile, o quello che si muove?

Tul. Senza dubbio.

Var. Se il movimento sarà eterno, adunque sarà eterno ancor quel che si muove.

Tul. Messer, sì.

Var. Adunque se il moto del cielo è eterno, anche il cielo è eterno: e il cielo è corpo; e ogni corpo è quanto, ovvero quantità. Adunque anche la magnitudine, ovvero grandezza, è eterna.

Tul. Io non posso negar coteste ragioni, e sono sforzata a credervi. Ma quando mi ricordo quante volte, e da quali uomini io ho udito dire che, secondo Aristotele, Dio non è infinito, mi pare strana cosa. E vi prego mi caviate di questo laberinto, porgendomi alcun filo, come fece a Tesco Arianna.

Var. Niuno spago ve ne può moglio cavar che la loica: perciocchè, essendo questo nome infinito termine equivoco, cioè pigliandosi in più modi, e singnificando diverse cose, bisogna prima dichiarare di qual significato intendete. Il che fatto, sarà non altramente che se vi fosse levato un grosso velo dinanzi agli occhi: e non facendo questo, tanto dice vero uno, che afferma Dio essere infinito, secondo i peripatetici, quanto uno che lo nieghi, e affermi Dio non essere infinito. E perciò dà Aristotele una regola, che mai non si debba rispondere ad uno, che usi nomi equivoci, ancor se fosse chiaro di qual significato intendesse, se prima non dichiara egli stesso: e perciò non vi voleva rispondere nel principio volendovi prima domandare di quale intendevate.

Tul. Perchè no 'l faceste?

Var. Perciocchè voi cominciaste quasi quasi a dirmi villania.

Tul. Fatelo adunque ora.

Var. Sono contento. Conciossiacosachè questo nome infinito significhi più cose, e varie, di quale intendete voi delle sue significazioni?

Tul. Voi non mi avete inteso, e avete equivocato. Io dico che voi mi dichiariate, come, e in quanti modi si piglia questa parola infinito.

Var. Questo sarebbe uno entrare nello infinito. Pur ve ne dirò quanto or mi sovviene, e quanto sarà il proposito del presente ragionamento. Finito, e infinto sono propriamente passioni e accidenti della quantità: e la quantità è di due ragioni: continua, la quale si chiama magnitudine, ovvero grandezza; e discreta, la quale si chiama moltitudine, ovvero numero: e preso lo infinito in questo modo, non si trova cosa niuna in niun luogo, la quale sia infinita in atto: dico in atto, perchè come niun corpo è infinito in atto, così tutti sono infiniti in potenza, perchè si possono dividere in infinite parti, e così sempre in infinito. Ma noi ragioniamo dello infinito in atto, e non in potenza.

Tul. Ditemi un poco: le linee non sono quantità continua?

Var. Sono.

Tul. I matematici tirano pur le linee in infinito.

Var. È vero: ma i matematici favella no secon lo la imaginazione, e non naturalmente, e anche con la imaginazione non si può intendere, nè comprendere cotale infinito: ma essi dicono in infinito, ciò è senza preciso termine per poter pigliar quella parte, che torna bene al proposito loro.

Tul. Perchè non si può intendore lo infinito?

Var. Perciocchè lo infinito è un quanto interminato: cioè una grandezza che non ha termine, ovver fine; onde non se ne possono pigliar mai tante parti, che non ve ne restino infinite altre da otersi pigliare; e perciò la mente e lo intelletto nostro vi si confonde dentro.

Tul. Intendo; ma la quantità discreta mi pare pure infinita, perchè mai non mi potrete dare un numero sì grande, che io non lo possa far maggiore, aggiungendovi uno o qual si voglia altro numero.

Var. Ditemi: i numeri che vi aggiungerete, saranno finiti, o infiniti?

Tul. Finiti: ma ve ne aggiungerò tanti, che faranno uno infinito.

Var. Questo è impossibile, che di cose finite non si può mai fare infinito niuno; onde il numero non è infinito in atto, ma in potenza: perchè come la quantità continua si può dividere e scemare in infinito, ma non già accrescere, così la discreta per lo contrario si può crescere in infinito, ma non già scemare.

Tul. Che direte voi dello intelletto umano, che è atto, e può non solo intendere, ma diventar tutte le cose, e perciò si chiama possibile, secondo che io ho letto in una delle vostre lezioni?

Var. Voi l'avete detto da voi, che egli è in potenza ogni cosa, non in atto.

Tul. Pur si potrebbe chiamare infinito, come ancora la materia prima, la quale, potendo ricever tutte le forme, io per me la chiamerei infinita.

Var. La materia non solo non è infinita in atto, ma non è nulla. Poi si potrebbe chiamarc infinita come lo intelletto, cioè in potenza, e anche mal volentieri.

Tul. Del moto, e del tempo, che voi chiamaste dianzi infiniti, che direte?

Var. Che sono infiniti di tempo, o veramente di durazione, perchè mai non sono tutti insieme; ma sempre successivamente di mano in mano, l'uno dopo l'altro, e così hanno la potenza mescolata insieme con l'atto.

Tul. Ben veggo che questa materia è infinita, e pur ancora non intendo come Dio si possa chiamare infinito, come dicevate dianzi.

Var. Non vi ho io detto, che lo infinito come tale, cioè come infinito, non si può intendere? Ma se non mi aveste interrotto, mi avreste forse inteso meglio. Oltra quelli, che si sono detti, ci è uno altro infinito, che si chiama infinito di virtù, ovvero di perfezione; che i filosofi dicono di vigore, ovver di potenza: onde non è niuno che non dica che Dio sia infinito di tempo, ovver di durazione, non avendo mai avuto principio, nè dovendo aver mai fine: e così si chiama Dio infinito ancora da' peripatetici: ma essi non vogliono che Dio sia infinito di perfezione e di virtù, e come noi diremmo di valore; perciocchè, oltra molte altre ragioni, egli moverebbe il cielo, non in ventiquattro ore, ma senza tempo; cioè in istante, e in un subito; perchè in una virtù, e perfezione infinita sarebbe anche una potenza infinita. Ma come questo è vero appresso loro, così è falso appresso la verità, come testimoniano, non solo tutti i teologi, ma ancora molti filosofi.

Tul. Io resto capacissima di ogni cosa: e mi sono accesa di un desiderio si grande, che se io fossi a tempo, vorrei ad ogni modo apparar loica, c non attendere mai ad altro.

Var. Voi fareste una faccenda. Chi non sa altro che loica non sa cosa niuna.

Tul. Togli questa altra! Mi pare oggi rinascere. Non ho io sentito dire a voi che senza loica non si può sapere cosa niuna veramente, perchè ella insegna conoscere il vero dal falso, e il buono dal reo in tutte le cose?

Var. Sì avete, e così è verissimo: e chi non ha loica, e dice di saper cosa niuna dice quello che non è, e che non può essere.

Tul. Come seiogliete adunque questa contrarietà?

Var. Ditemi: Basterebbevi l' animo, non avendo squadra, o regolo alcuno, conoscer quali cose fossero diritte, e quali no?

Tul. Non già a me.

Var. E se aveste più squadre, e più archipenzoli che non furono mai, e non gli adoperaste mai, darebbevi il cuore di conoscer qual muro fosse dritto, e qual torto?

Tul. Messer no: ma resterebbe da me.

Var. Egli resterebbe anche da voi se aveste più loica che non fu mai della fatta, e non voleste attendere alle scienze, e seryirvene a quello perchè fu trovata. Ma lasciamo an dar questo, e massimamente restandoci ancora che dire intorno al dubbio propostomi da voi.

Tul. A me pare di esser chiara a bastanza senza che me ne diciate altro.

Var. In che modo?

Tul. Che amore è infinito non in atto, ma in potenza; e che non si può amar con termine: cioè che i desiderj degli amanti sono infiniti, e mai non si acquetano a cosa niuna; perchè dopo questo vogliono qualche altra cosa, e dopo quella altra un' altra; e così di mano in mano successivamente; e mai non si contentano, come testimonia il Boccaccio di se medesimo nel principio delle sue cento novelle. E quinci è che gli amanti or piangono, or ridono; anzi (il che non è solo più meraviglioso', ma del tutto impossibile agli altri uomini) piangono e ridono in un medesimo tempo; hanno speranza e timore; sentono gran caldo e gran freddo; vogliono e disvogliono parimente, abbracciando sempre ogni cosa, e non istringendo mai nulla; veggono senza occhi; non hanno orecchie, e odono; gridano senza lingua; volano senza moversi; vivono morendo; e finalmente dicono, e fanno tutte quelle cose, che di loro scrivono tutti i poeti, e massimamente il Petrarca, al quale niuno si può comparare, nè si dee, negli affetti amorosi.

Var. Bene è vero; ma chi non gli ha provati, o prova, come ho fatto e fo io, e farò oggimai sempre.

Se ben me stesso, e mia vaghezza intendo, non solo non può credergli, ma se ne ride; e ho io conosciuti di quegli a cui sono intervenuti, poscia gli hanno ripresi in altrui e credendo di non mai più potersi, non che doversi innamorare, sono ricaduti assai peggio, e dato le pene della superbia, anzi ingratitudine loro. Amore è Dio, e grande Dio è Amore: e chi ha più o saputo, o potuto più, gli è stato fedele e obbediente: e io bene il so, e ne posso fare non meno ampia che vera testimonianza. E così non fosse stato come fu; anzi così non fusse, come è, che io non viverei infelice; non mi chiamerei misero; non morrei mille volte ogni ora, come fo, e farò più mai sempre di mano in mano, poscia che amore non ha termine nè fine niuno; e pascendosi dell' altrui mente mai stanco, nè satollo non se ne vede. Ma

Dolor, perchè mi meni

Fuor di camino a dir quel, ch'io non voglio? Voi mi avete chiarito di quello che io non dubitava; cioè che sapevate benissimo la resoluzione di cotal dubbio. Benchè a me ne rimangono ancor nella mente alcuni dubbj.

Tul. Se egli è come voi dite, che io abbia detto il vero, molto me ne doglio, perciò che io vorrei, che la verità stesse tutta altramente di quello che ho detto, e che l'amor avesse termine. Sì che, se voi sentite altramente, dite pur via, che mi troverete dispostissima ad udirvi; e desiderosissima di esser persuasa in contrario: e non vi mettete pensiero di questi altri; che queste sono cose, che toccano a tutti generalmente, e ciascuno le ascolta volentieri; e tanto più ei farete meravigliare, quanto credevamo tutti che sapeste ragionare di ogni altra cosa meglio che di Amore; e che di ogni altra parlaste più volentieri, non essendo questa la profession vostra; e mostrando di esser più tosto severo di natura che altramente.

Var. Quello che io mostri, o non mostri, non vi so io già dire. Vi dico ben tanto, che, se io so cosa niuna, che ben so quanto ne so poche, questa è una, anzi la prima: pereiocchè tutte le altre mi sono state insegnate o dalla voce degli uomini vivi, o dagli scritti de' morti; questa sola ho apparata dagli Dii: cioè dalla natura, e da amore con una continua e lunghissima sperienza; che dal dì, si può dir, ch'io nacqui, avendomi avuto amor poco meno che dalle fasce insino a questa ora, che ho pur passate le quattro decine di più di due anni, mai non ho restato d'amare, nè mai resterò: onde, come sempre ne penso, così vorrei favellarne sempre. E chi sa se amore è per tutto e governa ogni cosa, conosee che mai non se ne può nè tanto parlare, nè così onoratamente che non meriti molto più senza niuna comparazione.

Tul. Io per dire il vero, vi avea ben per tale, e ne ho dato qualche dimostrazione, non ostante che molti altri no'l credessero, e mi volessero persuadere in contrario. Ma ditemi: che vi tiene che non ne ragionate se non, sempre, almeno più spesse volte che non fate?

Var. Tiemmi che questo nostro secolo ha in gran parte scambiati i nomi alle cose, e ha dato quel di amore, il quale è il più nobile, che si possa trovare, quasi alla più vil cosa, che sia: onde i più, tosto che sentono dire che uno sia innamorato, ne fanno subito senza volerne intendere altro, cattivissimo giudicio, avendolo per uomo vizioso, e almeno lo tengono persona leggiera, e di poco cervello; e tra che il nome del filosofo non ha oggidì appresso la maggior parte miglior grazia che si bisogni, se vi si aggiungesse ancora innamorato, non è uomo di sì poco ingegno, che non gli paresse di poterlo o riprendere, o uccellare giustamente.

Tul. Egli mi è bene stato detto, che voi volete fare il filosofo, ma che voi non sete.

Var. Cotestoro bisogna per forza o che siano in equivoco, o che non sappiano che cosa voglia dir propriamente filosofo.

Tul. L'averebbono pure a sapere, tale precettore hanno avuto, e sapendolo io che son donna. Ma che vuol dire, che voi fate delle rime, dove si favella d'amore, e non avete tanti rispetti? Chi sarà di quella natura, o avvezzo con sì fatti costumi, vi uccellerà, o riprenderà medesimamente.

Var. M'è avvenuto forse una volta. E se mi avesse tanto giovato, quanto mi ha nociuto.

Tul. Perchè?

Var. Perciocchè chi fa sonetti, oltra le altre cose è tenuto che non sappia fare altro; e così non sia buono a nulla: e lo chiamano poeta, pensando che questo nome si convenga a chiunque fa versi, e non voglia significare altro che uomo da ciance, e da frascherie, per non dire stolto, e mentecatto.

Tul. Perchè ne fate adunque?

Var. Perchè io la intendo altramente; e arei voluto imparare a farne: ma perchè conobbi, già molti anni sono, che non era arte da ognuno, ricercandosi oltra lo ingegno, e il giudizio la cognizione d'infinite cose, me ne tolsi giù, e mai non feci, poichè gustai quelli di Monsignor Bembo, se non per necessità, o per debito. E se avessi creduto che mi fosse riuscito, non arei guardato al dir delle brigate, come non ho guardato in qualche altra cosa; perchè dove non si offende persona se non se stesso, al detto loro, ciascuno dee poter far quello, che giudica che meglio gli torni: conciossiacosachè non tutti gli uomini stimano la roba, o l'onore egualmente, e in un modo medesimo: e chi non vuole esser ripreso in cosa niuna, non bisogna che faccia nulla.

Tul. Sono pure strane opinioni. Non sanno eglino che il Petrarca è in tanto pregio, e riputazione più senza comparazione niuna per le rime che per altro?

Var. Che conto pensate, che tengano questi tali del Petrarca? Ma oggimai ragioniamo d'altro.

Tul. Di grazia:

Che ciò volere udire è bassa voglia.

E, come disse Dante degli sciagurati, Non ragioniam di lor; ma guarda, e passa.

Ma proponetemi quei dubbj che voi dicevate dianzi.

Var. Io burlava.

Tul. Non burlavate no; che bene vi conosco, oltra che avete detto tante volte da voi, che non burlate mai in così fatte cose.

Var. Voi avete conchiuso finalmente, che amore è infinito, onde non si può amar con termine: conciossiacosachè gli amanti abbiano sempre nuovi disj, e mai non si contentino di fine niuno senza disiderar più oltra. Non è questo vere?

Tul. Verissimo.

Var. Ora io contra questa vostra conchiusione arguisco in questo modo. Tutti gli agenti razionali, cioè che operano con cognizione, fanno tutto quello che fanno ad alcun fine: che dite di questa proposizione?

Tul. La concedo, perchè so che è d'Aristotele: ma ne vorrei saper la cagione.

Var. La cagione è che niuna cosa si muove a far cosa niuna da se stessa, ma bisogna che sia mossa da altrui: e il fine è quello che muove l'agente, dice il filosofo.

Tul. Lo credo, poichè lo dice il filosofo; ma vorrei sapere la cagione anche di questo.

Var. Io so che non volete andarne senza esser menata. La cagione è perchè niuna cosa può operare in se stessa nè realmente nè spiritalmente, ma ha bisogno di uno agente estrinseco, cioè di uno che sia fuor di lei, e la muova.

Tul. Credo anche questo. E anche di questo vi domanderei la cagione, se non che dubito di non esservi fastidiosa, o parervi troppo importuna, senza che ce ne andremmo nello infinito.

Var. Non dubitate di questo ultimo, che in tutte le cose si viene ad un capo, e primo principio, il quale è noto da per sè; onde essendo primo, non ha nulla innanzi a sè; e essendo noto, non ha bisogno di esser dichiarato. E a me non può esser fastidiosa cosa niuna, che piaccia a voi. E mai non mi parrà troppo importuno chi cerea di sapere le cagioni delle cose; ma bene è troppo trascurate chi non le cerea.

Tul. Ditemi adunque perchè niuna cosa muove se stessa.

Var. Perchè ne seguirebbe uno inconvenente impossibile; e q esto è, che una cosa medesima sarebbe il movente e il mosso; e volete dire quello, che fa, e quello che è fatto?

Tul. E perchè è questo inconveniente, e impossibile?

Var. Voi mi tentate: perchè una medesima cosa sarebbe in un medesimo tempo in atto, e in potenza: il che è impossibilissimo.

Tul. Avete mille ragioni. Ma io non so come questa ragione vi valesse nel primo motore

Var. Anche in lui vi varrebbe. Ma non sagliamo ora tanto alto. Concedetemi voi che chiunque opera, opera per qualche fine?

Tul. Coneedolovi.

Var. Dico ancora per una altra proposizione di Aristotele; che tutte le cose, che operano per qualche fine, tosto che elle hanno conseguito quel fine, si fermano, e non operano più.

Tul. Par ragionevole, che altramente si andrebbe in infinito. Ma che fa questo? A me par che dichiate cose vere, ma fuori di proposito.

Var. Voi ve ne avvederete di qui ad un poco. Fa che chi desidera alcuna cosa, ottenuta che egli la ha, non la desidera più.

Tul. lo comincio ad intendervi, e veggo dove volete riuseire. Ma credo non la correte questa volta: conchiudete.

Var. Io ho bello e conchiuso. Perchè ogni volta che mi avete conceduto le due promesse, (che così chiamano i loici la maggior proposizione) e la minore, delle quali si fa il sillogismo, sete costretta, o vogliate voi, o no, a conceder quello, che ne viene, cioè la conseguenza.

Tul. Inferite adunque, e fate questa vostra conseguenza.

Var. Se tutti gli amanti hanno qualche fine, e chiunque consegue il suo fine cessa dal moto, cioè non opera più, ne viene necessariamente che tutti gli amanti, i quali conseguono il fine loro, si contentino, e non amino più.

Tul. Non si può negare.

Var. Adunque amore ha fine, e si potrà amar con termine; e così non sarà vera la conchiusione fatta di sopra da voi.

Tul. Io feci bene la conchiusione, nella quale è poca fatica, e se la saperebbe fare ognuno: ma voi faceste le promesse, dove consiste il tutto. E non crediate che io dica così, perchè io mi sia rimutata, e non mi parrà vera, mediante la vostra obiezione, che la tengo verissima; anzi avendola per dimostrazione, non posso non crederla, e mutarmi mai, pensando che possa essere altramente, se mi avete detto altre volte il vero; che chi sa una cosa dimostrativamente, e per iscienza, non può mai mutarsi, e non la credere. Onde essendo quella verissima, e questa ancora, sono sforzata tenerle per certe amendue: e così fo, rispondendovi che niuno amante conseguisco mai il fine suo: che se lo conseguisse, sarebbe di necessità verissimo quanto avete conchiuso.

Var. Voi dite bene, e procedete non solo con ordine, ma dottrinalmente. Ma penso di avere a durar poca fatica a provarvi quello, che è noto a ciascuno; e che poco fa confessaste voi medesima, quando diceste che molti, e antichi e moderni, avevano in prima amato, e poi lasciato lo amore; che di tanti si può credere che uno almeno godesse di quel piacere, oltra il quale, sì come dice il Boccaccio, niuno è più grande in amore.

Tul. Voi vi sarete in questa volta dato della scure in sul piè da voi a voi.

Var. Non sarò il primo, che saetta i colombi suoi: ma dite perchè.

Tul. Perciocchè questo nome di amore, significando più maniere di amori, è nome equivoco: e voi non mi avete domandato prima di quale io intendeva.

Var. Addio signora Tullia; voi me l'avete appiccata.

Tul. Vostro danno.

Var. Mio danno sia: ma io ve ne domando ora.

Tul. E io ora vi rispondo, e dico, lasciando stare molte altre divisioni, che si potrebbono fare, che lo amore è di due ragioni; l'uno chiameremo volgare, ovvero disonesto; e l'altro onesto, ovvero virtuoso. Il disonesto che non è se non degli uomini volgari e plebei, cioè di quelli, che hanno l'animo basso e vile, e che sono senza virtù, o gentilezza (qualunque essi si sieno o di picciolo legnaggio, o di grande) è generato dal disiderio di goder la cosa amata: e il suo fine non è altro che quello degli animali bruti medesimi; cioè di aver quel piacere, e generare cosa simigliante a sè senza pensare o curare più oltra; e chi si move da questo disiderio, e ama di cotale amore, tosto che egli è pervenuto dove egli disiderava, e ha adempita la volontà sua, cessa dal moto, e non ama più: anzi bene spesso, o per aver conosciuto l'error suo, o per dolergli il tempo e la fatica, che vi ha speso, rivolge lo amore in odio, e di questo non parlava io.

Var. Ve lo credo certissimamente; che so bene che l'altezza del vostro animo nobilissimo non discenderebbe tanto basso, che gli cadesse nel pensiero di ragionar di cose sì vili. Ma seguitate.

Tul. L'amore onesto, il quale è proprio degli uomini nobili, cioè che hanno l'animo gentile, e virtuoso, qualunque essi siano o poveri, o ricchi, non è generato nel di derio, come l'altro, ma dalla ragione, e ha per suo fine principale il trasformarsi nella cosa amata con disiderio che ella si trasformi in lui, tal che di due diventino un solo, o quattro; della qual trasformazione hanno favellato tante volte, e così leggiadramente sì messer Francesco Petrarea, sì il reverendissimo cardinal Bembo; la quale perchè non si può fare se non spiritalmente, quinei è che in cotale amore non hanno luogo principalmente se non i sentimenti spiritali: ciò è il vedere, e l'udire, e più assai, come piu spiritale, la fantasia. Bene è vero, che disiderando lo amante, oltra questa unione spiritale ancora la union corporale per farsi più che può un medesimo con la cosa amata, e non si potendo questa fare per lo non esser possibile che i corpi penetrin l'un l'altro, egli non si può mai conseguir questo suo disiderio, e così non arriva mai al suo fine; e perciò non può amar con termine, come io conchiusi di sopra. E benchè intorno a questi due amori si potessero dire infinite cose, a me e assai aver dette quelle che bastano a mostrare la conchiusion mia esser verissima.

Var. Piacemi sommamente tutto quello, che evete detto, e mi avete ripieno di una dolcezza ineffabile. E benchè mi nasca qualche dabbio intorno alle cose dette da voi, tuttavia sono dubitazioni leggieri; e sopra il tutto mi è piaciuto il vedere, che non solo avete letto Filone, ma intesolo, e tenutolo a mente.

Tul. Deh! per quanta affezione mi portate, poichè siete entrato in Filone, ditemene la opinion vostra, e il giudicio, che voi ne fate.

Var. Non mi sforzate, vi prego, a questo, che sapete che ognuno ha le sue opinioni e albagic.

Tul. E questo è quello che io cerco di sapere.

Var. Non ve ne curate se mi amate.

Tul. Perchè?

Var. Perciocchè io favello liberamente, e non posso dir se non quello, che io intendo: e oggi non si usa, nè bisogna far così, onde se si risapesse poi, so bene io quello che direbbono molti.

Tul. Quanto più me'l negate, più me ne cresce la voglia. Noi siamo tra noi, e di qui non ci ha ad uscir cosa che ci si dica. Si che ditelomi, per cortesia.

Var. Poi che sono entrato in ballo, bisogna ballare. Tra tutti quelli che ho letti io. così antichi come moderni, che abbiano seritto li amore in qualunque lingua, a me piace più Filone che niuno; e più mi pare avere apparato da lui: perciocchè al mio poco giudieio egli ne favella non solo più generalmente, ma con maggior verità, e forse dottrina.

Tul. Avete voi letto Platone, e il Convivio di messer Marsilio Ficino?

Var. Signora sì: e mi paiono amendue miracolosi: ma Filone mi contenta più, credo perchè non intendo gli altri.

Tul. Gran lode è questa.

Var. Sì se gli fosse data da uno che avesse giudicio da saperlo giudicare, e gli altri non fossero stati innanzi.

Tul. Basta; io era anche io di cotesta opinione; ma intesi poi da non so chi che egli diceva alcune cose, che non erano peripatetiche, e mi rimasi di leggerlo.

Var. Faceste un gran male. Anche in Platone sono delle cose, che non sono peripatetiche. Poi chi vuole giudicare un libro, dee guardare al più, e al meglio. Ma lasciamo che ognuno la intenda a suo modo, e concediamo agli altri quello vogliamo sia conceduto a noi, cioè di dire liberamente la opinion nostra; che chi fa così non inganna niuno, che non voglia essere ingannato; essendo in libertà di ciascuno o di non volerlo credere intendendosene, o di domandarne uno altro non se ne intendendo. E a chi pare d'intendersene è come se fosse, quanto a lui; e sarebbe forse follia cavarlo di quello errore, nel quale si compiace. Io dico che molti hanno scritto di amore, e molto, e chi dottamente, e chi leggiadramente; e chi l'uno, e l'altro; ma io prepongo Filone a tutti, se bene in alcune cose, e massimamente quando entra nelle cose della fede giudaica, più tosto lo scuso che approvo. Nè favello in questo luogo di quelli, che hanno favellato di amore non come è, ma come lo hanno avuto, o come lo vorrebbono essi, dipingendo non la natura di lui, ma quella di sè medesimi, o delle donne loro. Ma di questo ragioneremo una altra volta, che di amore non si può mai dir tanto, che non vi resti da dir molto più: e io per me non me ne vederei mai stanco, nè sazio; ma non voglio infastidir voi altri.

Tul. E pare, che voi non ci conosciate. Voi ci avete ben fatti meravigliare. lo per me facendo voi tante scuse, pensai da prima che voleste biashnare Filone; poi quando vi sentii lodarlo tanto, tenni per fermo, e così giucherei buona cosa che tennero questi altri, che voi voleste riuscire altrove.

Var. Dove?

Tul. Dove dice? negli Asolani del reverendissimo Bembo, c non ne' dialoghi di Filone.

Var. Perchè pensavate voi così?

Tul. Pereiocchè, oltra che quella opera merita tatte le lode di tutti gli uomini, qui non è niuno che non sappia la affezione infinita, che voi portate gia tanti anni a sua signoria reverendissima.

Var. Io porto affezione e riverenza infinita non al Bembo, ma alla bontà sua: ammiro, e adore non il Bembo, ma le sue virtù, le quali io non ho mai lodate tanto, che non mi paia aver detto poco. E non dico che gli Asolani, i quali io ho celebrati mille volte, non siano bellissimi, e che con la dottrina grande non sia congiunto un giudicio grandissimo, e una eloquenza miracolosa; ma Filone ebbe uno altro intento: e ne' casi d'amore penso, che si possa dire forse molto più, e certo con più leggiadro stile, ma meglio, ch'io creda, no. Ma di grazia che non si sappia fuori, che non mi fosse ievato addosso qualche romore, che mi fossi ridetto, o ribellato dal Bembo.

Tul. Non dubitate; ma torniamo ai ragionamenti nostri, c ditemi que' dubbj, che avete nelle cose dette da me.

Var. Non vi ho io detto, che sono di poca importanza? e anche ho paura di non me ne ricordare; oltra che l'ora si fa tarda; onde dubito si di non tenere a disagio questi gentiluomini, e sì che non ci rimanga tempo di sentir favellare questi altri, che pur non hanno fatto una parola in tutto oggi.

Tul. Non pensate a tante cose, e non abbiate tanti risguardi, che semo d'accordo così; seguitate via.

Var. Io non vi negherò più cosa niuna, che ad ogni modo ve le concedo poi tutte. La prima cosa io non intendo per qual cagione voi biasimate (e chiamate disonesto); quello amore, il quale è comune a tutte le cose animate, parlo di queste inferiori; anzi è in modo loro proprio che sono fatte più per quello che per altro; come si vede nelle erbe, e nelle piante, che hanno l' anima vegetativa; e in tutti gli animali bruti, che hanno la sensitiva oltra la negativa; e negli uomini ancora, i quali, oltra la negativa e sensitiva, hanno di più la razionale, o vero intellettiva; perchè Aristotele dice che un uomo, il quale non può più generare, non è più uomo, non potendo far quello a che fare fu prodotto dalla natura. Poi non so quello, che voi vi direste di coloro, i quali amano i gioveni, il cui fine si vede essere manifestamente, che non può essere disiderio di generar cosa simigliante a sè. Oltra questo non par vero che tutti quelli che amano di amor volgare e laseivo, conseguito che hanno il disiderio loro, lascino lo amore; anzi si trovano molti, che s'accendono più. E questi tre dubbj voglio che per ora mi bastino circa questa prima specie di amore.

Tul. Non sono mica leggieri questi dubbj, e di poca importanza, come gli facevate voi: e so che andate ricercando ogni cosa minutamente; ma io vi risponderò come saprò. Al primo dico, che io so bene che di quelle cose, che ci vengono dalla natura, non possiamo essere biasmati, nè lodati; e perciò nè nelle piante, nè negli animali non si può biasmar cotale amore; nè in loro si chiama lascivo, o disonesto, nè negli uomini ancora; anzi si può, e si dee lodare, e tanto più negli uomini quanto essi producono cose più perfette, e più degne che le piante, e gli animali non fanno; pur che tale appetito non sia sfrenato, e troppo strabocchevole, come si vede accader le più volte negli uomini, i quali hanno libero arbitrio; dove nelle piante, e negli animali non avviene; non perchè siano animali, come rispose già quella imperatrice, ma perchè sono guidati da uno intelletto, che non erra. Ora come niuno merita biasimo, il quale mangi, o bea, anzi lode, perchè mediante questi ristora il caldo naturale e l' umido radicale, per li quali due si mantiene in vita, così lode merita, e non biasimo, uno che generi cosa simigliante a sè: e si conservi, poi che non può nello individuo, cioè in sè stesso, almeno nella specie sua. Ma come uno, il quale mangia e bee o più del dovere, o fuor di luogo e di tempo tanto, che quello che gli dovria giovare gli noccia, è degno non solo di riprensione, ma di castigo, così anzi molto più merita castigo e riprensione chiunque senza regola o misura alcuna si dà in preda agli appetiti carnali, sottoponendo la ragione, la quale doverebbe esser la reina, al senso, e brievemente diventando di uomo razionale animal bruto. Oltra questo non vi ricorda egli di quel santo romito di Lavinello, che diceva che troppo gran torto ci averebbe fatto la natura, e ci sarebbe assai peggio stata che matrigna, se non potessimo arrischiare il capital nostro se non in perdita sempre, e non mai in guadagno, perchè se i bruti non diventano mai piante: come noi diventiamo bruti, essi non possono ancora per mezzo niuno diventare uomini, come noi angeli mediante l'amore. Onde, come non si può tanto biasimare, che non sia poco, chiunque dal grado dell'uomo, il quale è sì perfetto, discende mediante lo amor disonesto a quello delle fere, così non si può lodare quanto merita chiunque da quello dell' uomo saglia mediante l'amor divino al grado degli Dii. Ma, che bisogna più dir di questo, essendone stato trattato tanto dottamente e tanto leggiadramente da quell' uomo veramente divino? E io per me mai non leggo le parole di quel santo romito, che non mi senta tutta, non so in che modo, inalzar da terra, e portare al ciclo tra si dolci suoni e canti con tanto gaudio e stupore, che nè io lo potrei ridire, nè credere chi non lo ha provato.

Var. Signora Tullia, non vi affaticate meco in cotesto, che altrettanto avviene a me, e forse più.

Tul. Credovelo quanto lo intendete più, e gustate meglio.

Var. Io non lo dico per cotesto.

Tul. Io lo dico io. Ma, venendo al secondo nostro dubbio, dico, che quelli che amano i gioveni lascivamente, non fanno ciò secondo gli ordinamenti della natura: e sono degni di quel castigo, che non solo dalle leggi canoniche e divine è stato loro dato, ma eziandio dalle civili e umane. E a pena posso credere che chi usa un così brutto, scelerato e nefando vizio, o per arte, o per una usanza così fatta, sia uomo. E di ciò avrò caro mi dichiate poi il parer vostro, che so bene che appresso i Greci era tutto il contrario; e che Luciano ne fa un dialogo, dove loda questo vizio, e Platone medesimamente.

Var. Io non voglio indugiare a poi, ma rispondervi ora, perchè voi mescolate i ceppi con le mannaie, e sete in troppo grande errore, se volete agguagliare Luciano a Platone, o pensate che Platone lodasse mai così lorda sceleratezza? Tolgavisi per Dio della mente così brutta credenza, anzi così grave peccato, indegno non pur del vostro animo cortesissimo, ma di qualunque più vile.

Tul. Perdonatemi. Io aveva inteso che Socrate e Platone non solo amavano i gioveni publicamente, ma se lo recavano a glovia, e ne facevano i dialoghi, come si vede ancora di Alcibiade, e di Fedro, dove parlano di amore amorosissimamente.

Var. Io non dico che Socrate e Platone non amassero i gioveni publicamente, e non si recassero a gloria, e non iscrivessero i dialoghi favellando di amore amorosissimamente; ma dico che non gli amavano a quello effetto, che si pensa il vulgo, e che pare che intendiate ancora voi. E non so chi parli più amorosamente che Salomone nella sua cantica.

Tul. Io crederò come dite voi, ma ditemi, erano eglino amanti?

Var. Come se egli erano amanti? Amantissimi.

Tul. Dunque desideravano di generar cosa simigliante a sè?

Var. Dubitatene voi?

Tul. Io non so che rispondervi, che voi mi rivolgete ogni cosa contra: e pure so che in questo caso non potevano conseguire il fine loro; e che niuno ragionevolmente può disiderare quelle cose, che non possono essere, e che egli non può conseguire.

Var. Voi mi solete parer l'altre volte più accorta, e non solamente di miglior giudicio ma di mente, che oggi non fate. Dubito che non abbiate fatta qualche combibbia, o com brica fra voi per vedere dove io riesco. E questo stare ognuno cheto a ciò, che si dice, me ne fa certo. Che so pure che voi sapete che come i corpi, che sono pregni desiderano di generare, così anzi molto più fanno gli animi gravidi; onde Socrate e Platone, i quali avevano gli animi pieni d'ogni bontà, colmi d'ogni dottrina, carchi d'ogni virtù, e finalmente pregni di tutte le maniere di begli e santissimi costumi, non desideravano altro che partorire e generare cosa simigliante a sè. E chi dice o crede altramente, non biasima loro, ma scopre sè stesso. E questo è il vero e proprio amor virtuoso, il quale è tanto più degno dell' altro, quanto il corpo è men perfetto dell'anima: e tanto meritano lode maggiore questi amanti, quanto è più lodevole un generare un bell' animo, che fare un bel corpo. E non v' inganni la usanza di oggidì; bastivi che tanto debbono esser lodati più quelli, che ciò fanno, quanto si costuma meno. Ma in troppo gran pelago semo entrati; e voi sapete benissimo ogni cosa; e pertanto tornate a sciorre il terzo dubbio.

Tul. Io non vorrei passar questa cosa così in fretta: e con tutto che conosea quello che dite esser verissimo, tuttavia vorrei sapere perchè non si può amare anche una donna di cotesto medesimo amore: chè non penso già che vogliate dire che le donne non abbiano l'anima intellettiva come gli uomini, e non siano di una medesima specie, come ho sentito dire a certi.

Var. È stata opinione di aleuno (pure è falsissima) che la differenza, che è tra le donne e gli uomini, non è essenziale; e io dico che non solo si possono amar le donne di amore onesto e virtuoso, ma che si dee: e io per me ho conosciuto di quelli, che l'hanno fatto, e fannolo continuamente.

Tul. Voi mi avete tutta racconsolate. Ma ditemi che vuol dir che questi Socratici non amano quelli, che non son belli, o che sono attempati?

Var. Io credetti essere io, che ricercasse ogni cosa minutamente. Ma cbi ve l'ha detto?

Tul. Veggol tutto il giorno.

Var. Volesse il Dio che di questi amatori, de' quali ragioniamo ora, se ne trovasser tanto spesso, quanto se ne trovano di rado: e che ne vedeste pure in dieci anni uno, non che ogni giorno. È ben verissimo quello che voi dite, che i più belli, o quelli che paiono più belli s' amano più tosto che gli altri, e più infino ad una certa età che poi.

Tul. E questo onde viene? Non mi allegate le ragioni, che segliono allegare i frati in iscusazione loro.

Var. E se fossero buone e vere, perchè non volete ch'io le alleghe?

Tul. Forse che udendole dalla bocca vostra le accetterò.

Var. Voi dovete sapere primieramente che niuno può intendere, o conoscere cosa niuna, se non mediante i sensi: e che tra le sentimenta il più nobile e il più perfetto è quello del vedere.

Tul. Tutto so, e tutto concedo; ma voi cominciate molto da alto, e con proposizioni molto universali.

Var. Bisogna far così con esso voi, che vedete il pelo nell' aovo, e volete sapere il che, e il come d' ogni cosa. Poi che il bello e il buono sono un medesimo.

Tul. Questo non sapeva io, nè lo concedo, perchè a questo modo tutti i belli sarebbono buoni.

Var. Ben sapete.

Tul. Guardate, non v'ingannate. Io per me ho conosciuti molti molto belli, ma non già punto buoni.

Var. Ed io ancora; ma non per questo è falso quanto vi ho detto, conciossiacosachè cotesto è avvenuto loro per accidente, e non per propria natura, ma o per colpa de'padri, o per difetto de'maestri, o per mancamento di amici; e sappiate che quel proverbio è verissimo, chi usa col zoppo se gli appicca. E vòvi dir più oltre, che que' tali quando sono cattivi sono peggiori che gli altri, anzi sono pessimi.

Tul. Di grazia ditemi la cagione.

Var. Ha così ordinato la natura, che quanto una cosa è migliore e più perfetta secondo l'esser suo vero e proprio, tanto se si guasta e corrompe, e esce del proprio e vero esser suo, è cattiva ed imperfetta. E per questo è che come non si può trovare il più santo, e più benigno e utile animale dell'uomo quando è buono, cosi quando è cattivo non si può trovare il più scellerato, maligno e dannoso. E se volete un esempio più materiale, sappiate, che, come si dice volgarmente, lo aceto forte si fa del vin dolce.

Tul. Piacemi; ma seguite il vostro sillogismo.

Var Il mio sillogismo è bello e fatto; perchè se si amano i più belli, è perchè l'uomo gli giudica non solamente migliori, ma di maggiore ingegno: e così nel vero doverebbe essere se non fossero le cagioni, che vi ho dette. Nè pensate che io dica se non quello, che io guidico, e tengo per fermo, che sia la propria verità; perchè, se facessi altramente, direbbero vero quelli che dicono che io non sono filosofo.

Tul. Sta bene. Dunque per quella vostra regola de'contrari tutti i brutti saranno cattivi.

Var. Signora, no.

Tul. Come no? bello e brutto non sono contrarj?

Var. Sono, e non sono.

Tul. Questa mi pare una contradizione espressa, ma non voglio entrar più là non sápendo loica. Dichiarate voi come si può salvare.

Var. È agevolissimo: i contrarj sono di più maniere: e quella regola non s' intende ne' contrarj positivi, ma privativi.

Tul. Non v' intendo.

Var. Contrarj positivi si chiamano quelli, che significano due nature contrarie, come sarebbe il bianco e il nero, il dolce e il forte, il duro e il molle, e altri simiglianti. Ed in questi non è vera la regola; perciocchè non ogni cosa che non è bianca è nera; nè ciò che non è dolce è forte; e così di tutti gli altri. Contrarj privativi sono quelli, che non significano due nature diverse: ma uno significa una qualche natura, l'altro la privazione di quella natura, come sarebbe a dire, vivo e morto; alluminato e cieco; giorno e notte, e altri simiglianti. E di questi vale sempre quella regola, perchè chi non è vivo necessariamente è morto; e così chi non vede è cieco di necessità: e quando non è dì bisogna che sia notte.

Tul. Intendo; ma quale è la eagione di questa diversità?

Var. Perchè i contrarj privativi non hanno alcun mezzo, e i positivi l'hanno; chè quello che non è negro può essere azzurro, o di uno altro colore: e cosi quello che non è dolee, puo essere agro, o di uno altro sapore

Tul. Intendo; ma bello e brutto mi paiono di quelli, che non hanno mezzo.

Var. Par bene, ma non è; perchè si trovano molte cose, che non sono nè belle, nè brutte.

Tul. Io vi troverò anche io delle cose, che non sono nè vive nè morte, nè cieche nè alluminate.

Var. Quali?

Tul. Che so io? queste mura; queste ci scranne.

Var. Sottilmente avete detto, ma non già veramente; chè una cosa non si può chiamar morta, che non fu mai, nè può essere viva; nè cieco quello che non è capevole della vista. E come volete privare uno e torgli quello, che non solo non ha, ma non l'ebbe mai, nè lo può avere? e se bene i poeti chiamano sordi i fiumi, le selve, e così fatte cose, che non sono capaci del senso dell'udito, lo fanno perchè sono poeti, e debbono così fare. Ma noi parliamo filosoficamente, e diciamo che degli uomini, e così tra le donne, molti se ne ritrovano, che non sono nè belli, nè brutti, e pur di loro natura sono subietto da ricevere l'uno e l'altro: e per ciò non vale la regola mia allegata da voi; e cosi avete inteso perchè gli uomini buoni e dotti amano più i belli che i brutti. Nè crediate che io voglia negare che la bellezza, la quale è una grazia che alletta, tira e rapisce chi la conosce, non faccia anche in loro qualche cosa; anzi grandissimamente; e sappiate che quanto uno è più perfetto, tanto conosce più la bellezza; e quanto la conosce più, tanto più ardentemente la desidera; anzi in tutte le cose dell'universo, siano quali si vogliano, dove si trova più nobiltà e più prefezione, quivi necessariamente vi si trova ancor più perfetto e maggiore amore. E per questo come Dio è somma bontà, e somma sapienza, così è ancora medesimamente sommo amore, e somma ogni cosa.

Tul. Tutto consento, e sono sodisfatta, perchè ancora i platonici amano i più belli, giudicandogli i migliori, e più ingeniosi, oltra che la bellezza ancora gli alletta; onde si vede che i padri e le madri medesimamente vogliono meglio a' più belli ordinariamente, benchè molte volte più cattivi; onde per questo non si può arguire male niuno ne' platonici. Restami solo a sapere perchè gli amino gioveni, e non altramente: che a chi non sapesse più potrebbe recar sospetto, e non forse senza cagione.

Var. Anzi con grandissima cagione: e se fosse vero cotesto, io per me sarei bello e chiaro; ma voi errate, e la cagione del vostro ingannarvi è che quella benivolenza e affezione, che si chiama amore ne' giovani, diventa in processo di tempo amicizia, e non par più, avendo mutato nome, che sia quella medesima; ma allora è ella vera e perfetta; e io so che dirmi, perchè se non vi è quel diletto, che si cava del rimirar le cose belle, vi è quello che si cava nel mirar le buone, il quale non è punto minore; senza che ogni artefice, quanto è più eccellente, tanto si rallegra maggiormente delle opere fatte da lui: e se i padri naturali pigliano tanto contentamento da'loro figliuoli buoni e virtuosi, quanto ne debbono pigliare i padri spirituali? e come non è cosa più utile che il sapere, così niuna è più gioconda che lo insegnare a chi la fa per piacere, e non prezzolato.

Tul. Odo oggi cose, che non le intesi mai più. Voi non mi negherete già, che molti di quelli che amano i gioveni in questo modo che voi dite, passato quel fiore dell'eta e della bellezza, non gli amano più, anzi alcuna volta portano loro odio.

Var. Se io non vi negassi cotesto, io poteva concedervi ogni cosa la prima volta, che in questo punto consiste il tutto. Che altro segno vorreste voi maggior di questo non solo a conoscere, ma a provare che il loro amore è lascivo, e fatto come quello degli altri?

Tul. Come farete adunque?

Var. Negherovvelo, Statevene voi punto in dubbio?

Var. Voi negherete la verità, che la sperienza mostra il contrario.

Var. Voi v'ingannate, dico.

Tul. Parole. Io vi avrò giunto dove io pensava di corvi meno.

Var. Io vi dico che non è vero: e meravigliomi non conosciate da voi che quello, che non può essere, non fu mai.

Tul. Cotesto so io se bene il poeta disse:

Com'esser può quel ch'esser non poteva?

Ma bisogna che rispondiate alla sperienza.

Var. Gran faccenda: cotestoro, che voi dite, potevano ben fingere d'amare virtuosamente, ma non amavano in verità: e, se bene erano filosofi, non amavano come filosofi; e quando io vi dico che questo amore e molto più perfetto, e per conseguenza molto più rado, che forse non vi pensate, credetemi.

Tul. Io lo credo pur troppo, e più che voi non dite; e forse più di voi. Non niego già che non possa essere sì per l'autorità vostra, che so no 'l direste se non lo credeste almeno (chè non vo' diro se non fosse), e sì perciocchè non veggo ragione alcuna che lo vieti.

Var. Ce ne sono ben molte, che lo persuadono se il secolo non fosse tanto corrotto. Voglio bene che avvertiate, che come ogni età non è atta ad ingravidare e generare, cosi ogni età non è atta ad imparare: e spesse volte, o per non rinscontrare in nature da ciò, o per mutarsi le voglie e fantasic degli uomini, e massimamente ne' gioveni, o per altri accidenti, che accaggiono molti e diversi nel vivere umano, si lasciano sì fatti amori, o s'interrompono cotali amicizie, e massimamente per cagione della avarizia, che regna oggi, e tiene il principato poco meno che per tutto il mondo, e della ambizione, come si vede in Alcibiade. Ma in troppo lunga materia siamo entrati; e voi avete ancora a sciogliere il terzo dubbio e raccontarmi i vostri ragionamenti.

Tul. La novità, e dolcezza di questo vostro discorso me l'avea fatto uscire di mente; e anche non so se me ne ricordo bene: pur credo sia che non è vero che tutti quelli, che amano d'amore volgare, conseguito il loro fine, non amino più, conciossiacosachè molti si accendono maggiormente.

Var. Cotesto è desso.

Tul. Egli non è dubbio niuno che ogni cosa, che si muove a qualche fine, conseguito cotal fine, cessa, e non si muove più, perchè, mancata la cagione che lo movea, la quale era il fine, manca necessariamente l'effetto, che era il moversi. Ora tutti quelli che amano di amor volgare, e non disiderano altro che congiungersi corporalmente con la cosa amata, tosto che hanno ottenuto questo congiungimento, cessano dal moto, e non amano piu. Non è vero questo?

Var. Verissimo. Ma io domando: ond'è che alcuni non solo lasciano l'amore, ma lo rivolgono in odio? Alcuni non solo non lo lasciano, ma lo accrescono.

Tul. Concedetemi voi che, subito conseguito cotale atto e congiungimento carnale, cessi il moto, e fornisca l'amore?

Var. Perchè non volete voi che io vi conceda quello che è vero, e che non si può negare in questa specie di amore? il quale, essendo desiderio, ovvero appetito carnale, è forza che, mancato cotale appetito mediante la copula e congiungimento del corpo, manchi subito l'amore. Ma perchè si rivolge egli talvolta in odio, e talvolta cresce?

Tul. Per rispondervi prima a questo ultimo, voi vi contradite, perchè mi concedete che è necessario che in tutti manchi l'amore, conseguita la dilettazion carnale; poi mi domandate perchè egli tal volta non solo non manca, ma cresce?

Var. Io non so chi cerca d' aggravar l'un l'altro. Voi pigliate per cosa chiara quello che si disputa. Io vi concedo che l'amore manchi in tutti, perchè è così; poi vi domando perchè tal volta cresca, perchè mi sciogliate il dubbio, veggendosi per esperienza che molti, ottenuto il desiderio loro, accrescono l'amore, e amano più ferventemente, che prima non' facevano.

Tul. Io vi ho inteso, e pensava che voi aveste inteso me. Dico che, conseguito il desiderio carnale, manca in tutti subito quella voglia e appetito, che gli tormentava e struggeva tanto, sì per quella proposizione universale e verissima, che s' è detta tante volte, che ciascuna cosa, che si muove a qualche fine, conseguito quel fine, non si muove più; e sì perchè il sentimento del tatto, e quello del gusto, ne'quali consiste principalmente la dilettazione di questi cotali amanti sono materiali e non ispiritali, com' è il ve dere e l'udire, onde vengono a saziarsi in contanente: e talvolta ristuccano in modo, che non solo fanno cessar l'amore, ma le rivolgono in odio, oltra le cagioni, che si dissero poco fa; e così è sciolta la prima dubitazione. Quanto alla seconda, tutti necessariamente in quell' istante, che hanno ottenuto il desiderio loro, cessano dal moto, ma non lasciano l' amore, e bene spesso lo accrescono, perchè, oltra che mai non si contentano a pieno, e rimane loro quel desiderio di goder la cosa amata soli, e con unione (onde cotale amore non può esser senza gelosia), bene spesso ancora come intemperanti desiderano di congiungersi, e avere quella dilettazione un' altra volta, e dopo quella un' altra, e così di mano in mano. Non voglio già negare, che ancora in questo amore non sia larghezza, cioè che non si diano più gradi secondo le nature così delle persone che amano, come di quelle che sone amate, trovandosene non più amorevoli una che un' altra, ma più prudenti, o di miglior natura in tanto, che questo amor volgare e lascivo può tal volta in aleuni esser cagione dell' amore onesto e virtuoso; come l' amore onesto e virtuoso si potrebbe tal volta convertire in lascivo e volgare, così per cagion dello amante, come per colpa dello amato; si come le piante molte volte secondo la natura loro, e i terreni, dove sono poste e trapiantate possono diventar di salvatiche domestiche, e di domestiche salvatiche. E questo è quanto mi sovviene di dire intorno i dubbj vostri; il che allora mi parrà vero, quando sarà approvato da voi.

Var. Io per me sono sodisfattissimo, e non mi resta altro, che ringraziarvi e pregarvi, che, essendo omai l'ora tarda, mi osserviate la promessa fattami tante volte: e se non conoscessi la gentilezza e cortesia di questi signori, molto dubiterei che non mi dovessero tenere oltra ignorante presuntuoso: ma essi mi scusino, che io non ho potuto fare di non obbedire a' prieghi vostri; e voi perdonate le colpe vostre a voi medesima.

Tul. A voi tocca, secondo i patti, signor Dottore si a ringraziare il Varchi, e sì a sodisfare a quanto domanda, che lo ha ben guadagnato.

Ben. Io non sono per mancare, ma ben mi duole che non ho tempo di poter fare nè l' una cosa, nè l' altra, sì tosto mi paiono trapassate via, anzi volate queste ore; e a voi, signor Varchi, rivolgendomi dico, che tutti insieme, e ciascuno da per sè vi abbiamo più obbligo della natura vostra, che per avventura non pensate. Noi oltre la disputa della infinità di amore, la quale di comune consentimento avevamo riserbato a voi, sapendo dovevate venire, e della quale io rimango, e così sono certo che fanno questi altri, tanto sodisfatto quanto si possa più, e ve ne ringrazio e per me, e per loro infinitamente; eravamo entrati in due altre dispute, nelle quali niuno voleva cedere; e a ciaseuno pareva di aver tutta la ragione dal canto suo, allegando dalla sua parte moltissime così ragioni, come autorità; e non ci potendo accordare altramente rimanemmo di rimetterci in voi liberamente, e starne senza potere appellar contra alla sentenza, e giudicio vostro; con questo convenente nondimeno, che nel dubbio della infinità di amore non dovesse favellar mai in pro, nè in contra se non la signora Tullia; e in questi altri due diedero il carico a me. Ma da che l' ora è tarda, e voi, sono certo, dovete essere, se non infastidito, stanco, vi proporrò solamente i dubbj senza allegare alcuna ragione, o mostrarvi chi difendesse più l' una parte, che l' altra: e voi per la solita cortesia vostra, e per compiacere alla signora, e a tutti noi altri, sarete contento di dirci solamente quello che tenete sia vero, o falso: e se niuno si terrà gravato, potrà poi uno altro giorno disputarlo a bell'agio; e i dubbj sono questi. Quanto al primo, tra noi erano di quelli, che dicevano che tutti gli amori erano per cagione e utilità propria; cioè che chiunque ama, amava principalmente mosso dallo interesse e util proprio: altri dicevano di no; ma che si trovavano di quelli, i quali amavano per cagion di altrui più che per sè stessi. Quanto al secondo, disputavamo quale amore fosse più possente, o quello che veniva dal destino, o quello che veniva dalla propria elezione.

Var. Io non so qual mi debbia far prima, o ringraziarvi del troppo onore che mi avete fatto, o scusarmi di non esser bastevole a tanto peso: perocchè, messer Lattanzio mio caro, io era venuto qui tutto lontano da avere oggi a risolver dubbj, e massimamente di questa maniera. Vi prometto bene che uno altro giorno mi sforzerò di sodisfare, se non a' comandamenti vostri, al mio debito.

Ben. Noi non volemo altro da voi se non che ci dichiate quello ne credete senza altre o ragioni, o autorità. Fateci questo piacer nella città vostra, che noi in Siena, e altrove ve ne faremmo di troppo maggiori che questo non è, solo che potessimo.

Var. Questo non è niente a quello vorrei far in servizio e contentezza vostra. Quanto al primo dubbio, io per me tengo, che l'uno e l'altro avesse ragione.

Ben. Guardate, messer Benedetto, a non far come quel podestà di Padova.

Var. Dico che chi dice che tutti gli amori abbiano principio, mezzo e fine dallo interesse particolar proprio, dice bene, e dice vero; perciò che tutti cominciano da sè stessi, e finiscono in sè medesimo; conciossiacosachè tutte le cose amano prima, e principalmente sè stesse, e poi per amor di sè stesse fanno e dicono tutto quello che dicono e fanno: e questo appresso me non ha dubbio.

Ben. Adunque aveva il torto chi diceva che si trovavano degli amanti, che non erano per cagion di sè, cioè dello amante, ma dello amato.

Var. Non dico questo: che se parliamo degli amori umani dalla luna in giù è verissimo, che ciascuno ama principalmente tutto quello, che egli ama per lo amore che porta a sè stesso; perciocchè niuno disidera se non quello che egli non ha, e non vorrebbe avere: ma dalla luna in su l' amor delle intelligenze, e massimamente del primo motore sta appunto a rovescio del nostro; perchè Dio ama non per acquistar cosa niuna, avendole tutte perfettissimamente, e in modo inimaginabile, non che intelligibile da noi, ma ama solo, e volge il cielo per la infinita bontà e perfezion sua, la qual disidera impartire alle altre cose tutte quante, secondo però la natura di ciascuna: perciocchè chi più ne riceve e chi meno; non altramente che il sole, il quale illumina egualmente ogni cosa, ma non è già ricevuto egualmente da tutte.

Ben. Così la intendeva io appunto; ma che direbbe la signoria vostra di quelli, che oltra il mettersi a mille danni, e manifesti pericoli, eleggono ancora spontaneamente di morire per la cosa amata?

Var. Quello, che risponderebbe la vostra; cioè, che lo eleggono, non come maggior bene, ma per minor male.

Ben. È vero cotesto; pur pare che vogliano meglio ad altrui che a sè.

Var. Questo non può essere: ma eleggono perciò che giudicano così essere se non il loro meglio, almeno il minor danno.

Ben. E qual maggior danno può essore che il morire?

Var. Il vivere come viverebbono essi. Poi non sapete voi che nello amor perfetto, del quale ragioniamo ora, lo amante e lo amato sono una cosa medesima, essendosi trasformati l'uno nell' altro, e uniti insieme?

Ben. E perciò non so io vedere perchè si debbia mettere a pericolo più l' uno che l' altro.

Var. Ben so che sapete che lo amato è in questo composto il più nobile, e perciò dee l'amante, come men nobile, mettersi a tutti i rischi in beneficio dello amato; come si vede naturalmente che il braccio per riparar la testa, la quale è più nobile, si para innanzi, e elegge di esser ferito egli per salvar la testa.

Ben. A me pare che nell' an or perfetto, quando è reciproco, ciascuno sia e amante e amato scambievolmente; e così non più l'uno che l' altro, ma amendue arebbero a voler correre i medesimi rischi egualmente.

Var. Così è vero, e così avviene molte volte; ma tuttavia sempre v' è l' amante primo, cioè quello che cominciò ad amare; e l' amato primo, cioè quello che cominciò ad essere amato; se bene, fatta poi la unione, ciascuno è insiememente e amante e amato. E i Dii, come raeconta Platone, rimunerano più gli amati, che si lasciano morire per gli amanti, che gli amanti quando vanno alla morte per gli amati.

Ben. A questo modo pare che gli amanti siano più uobili e più degni che gli amati.

Var. Già avemo detto che Platone lo concede: ma Filone, e con gran ragione, per quanto a me paia, tiene la opinion contraria. E gli Dii, come dichiara egli stesso, rimunerano più l'amato che l' amante; perciocchè ordinario è allo amante fare, e patir per lo amato, parendo che così porti e richiegga il suo debito; ma quanto l' amato fa per lo amante, facendolo per propria cortesia e bontà di natura, merita dagli uomini maggior lode, e da' Dei maggior premio; non che chi è amato non sia tenuto riamare; ma di questo non è tempo ora.

Ben. Piacemi che avete dette le medesime ragioni, che allegava io: ma dello esempio, che avete detto del braccio, che non cura di porre a pericolo sè per salvare il capo, mi nasce un dubbio contra quello che voi diceste dianzi, che ogni cosa ama principalmente sè, e fa tutto quello che fa in utile, piacere e beneficio suo.

Var. Anzi questo esempio ve lo mostra chiaramente; perciocchè, se bene gli agenti naturali operano naturalmente, cioè fanno senza saper che, e non conoscono quello che fanno, (come il fuoco, che sempre arde quando ha che, e l'acqua immolla, nè perciò conoscono quello di ardere, e questa di immollare) tutavia sono indrizzati e regolati nelle operazioni loro da Dio, non altramente che i bolzoni vanno alla mira guidati dal ballestriero; e perciò non errano mai, e perciò conseguiscono il loro fine, onde il braccio non per altra cagione si pone in mezzo tra il colpo e la testa, se non per salvare il tutto: che ben sa che, mancando il tutto, mancherebbe anche egli di necessità, e per questa medesima cagione l' acqua contra la propria natura sua saglie, e il fuoco scende, non perchè non si dia vacuo semplicemente, ma perciocchè, dandosi vacuo, verrebbe a corrompersi l' ordine dell' universo, e conseguentemente a mancare il mondo: e, mancato il mondo, non sarebbe più nè acqua nè fuoco. E così viene ad esser verissimo, che tutte le cose fanno tutto quello che elle fanno per conservazione e mantenimento di sè medesime.

Ben. Quanto al primo dubbio non mi curo d'intender più oltra. Quanto al secondo che dite voi?

Var. Io vi confesserò la verità; io non lo intendo bene: e oltra questo veggo che bisognerebbe entrare nel fato e nella predestinazione: le quali sono cose non meno lunghe e difficili, che pericolose; e pertanto io giudicherei che fosse ben fatto, che noi rimettessimo questa quistione in tempo, che ci si ritrovasse il non meno graziosissimo che eccellentissimo signor Porzio, al quale, per la profondità e varietà delle scienze, che sono in lui, in questo e in altri dubbj, sarà agevole di potervi securamente sodisfare. E se oggi stato ci fosse, come alle volte è usato di venirci, a me averebbe tolta la fatica del dire, e senza fatica di sè di tutte le vostre dubitazioni vi averebbe data certa resoluzione; oltra che omai sarà tempo da pigliar licenza dalla signora per non tenerla più occupata del dovere, e ancora perchè a me non pare di rimaner chiaro di non aver guasti i ragionamenti vostri, che non mi parevano esser sì gravi e sì fastidiosi a quello che vi vedea tutti lieti e ridenti.

Ben. La cosa sta a punto come io vi ho detto. Bene è vero che eravamo entrati in un discorso con la signora, volendole mostrar quello che ella sa molto meglio di niuno altro; e questo è che ella si può chiamar felicissima fra tutte le altre; perciocchè pochissimi sono stati quelli, o sono, i quali siano stati, a' giorni nostri, o siano eccellenti o in arme o in lettere, o in qual si voglia altra pregiata professione, che non la abbiano amata e onorata: e le raccontava tanti gentiluomini, tanti letterati di tutte le maniere, tanti signori, tanti principi e tanti cardinali, che alle case di lei in ogni tempo, come ad una universale e onorata Accademia, sono concorsi, e concorrono, e che la hanno onorata, e celebrata, e onorano, e celebrano tuttavia; e questo per le radissime anzi singulari doti del nobilissimo e cortesissimo animo suo: e già ne le avea nominati infiniti, e ne nominava ancora, suo quasi malgrado, che mi dava in sulla voce, e cercava d' interrompermi. E a punto quando sentimmo picchiare, che veniste voi, voleva entrare in Siena, dove ella è più tosto ammirata e adorata, che ben voluta e amata, e massimamente da tutti i più nobili e più virtuosi.

Tul. Messer Lattanzio, se voi non vi acquetate, io romperò le leggi, e mi cruccierò con esso voi.

Var. Infin qui egli non ha detto cosa, che io non mi sapessi, e forse un poco più là, se già non volete che mi siano secreti i bandi, e pensate che io non sappia quello che sa tutta Italia, anzi tutto il mondo. Sì che lasciatelo fornire.

Ben. Non ho che dire altro.

Var. Eh, dite su, che io desidero di saper que' Senesi che più la amano.

Ben. Io vi avrei a raccontar tutta la nobiltà di Siena se voleste sapere tutti quelli, che la amano e osservano.

Var. Ditemi almeno di quelli che sono amati da lei.

Ben. Questo non so, ma credeva bene che fossero più che non sono.

Var. E di questo che sapete? A me paro che ella raccolga volentieri, e faccia buona cera ad ognuno.

Ben. E questo è quello, che mi avea ingannato. Io so bene, che le gentilezze e cortesie sue sono infinite, e si possono conoscer da molti segni, che io non voglio raceontaro in sua presenza; ma intendeva di quelli, a chi ella portava affezione straordinaria.

Var. Chiamate la gatta gatta; che volete voi dire?

Ben. Vo' dire che molti per avventura si danno a credere che ella di loro sia innamorata e io credo che s' ingannino.

Var. E perchè dite voi cotesto? Io per me ne la terrei da più quando ella ad alcuno portasse amore.

Ben. Anch'io; ma dico così perciocchè, avendole nominato dianzi fra tanti che la hanno amata e celebrata in prose e in versi messer Bernardo Tasso, e chiamandolo io felice per lo essere stato tanto amato da lei, ella il mi negò; e allegandole io la autorità e testimonianza di messer Sperone in quel suo bellissimo e dottissimo dialogo di amore, mi rispose avere amato, e amare il Tasso per le sue virtù, e per essere stata amata da lui assai più che straordinariamente; ma che mai non ne aveva avuto gelosia.

Var. Certo, messer Bernardo, per quanto lo ho conosciuto io, è cortese e virtuosa persona, e merita ogni bene; e a me parrebbe bene assai, amando una cosa tanto rada, non le essere a sdegno; pensate quello mi parrebbe poi esser ben veduto e accarezzato. Ma che volle fare messer Sperone, che è tanto cortese gentiluomo, e amorevole quanto dotto e giudicioso?

Ben. Si pensava così, tanto bene voleva alla signora. E chi sa meglio di voi quello che può far la gelosia?

Var. Avetemi voi per sì geloso?

Ben. Io dico perchè voi ne faceste già in Padova una lezione. Ma ecco qua la Penelope che ne viene; sarà meglio che indugiamo a fornire il restante ad una altra volta, e questi altri diranno la parte lore.

Var. Così sì faccia.

Tul. Sì, ma che si ragioni di altro che de' casi miei, se volete che possa prima ascoltarvi, e poi ringraziarvi come vorrei e come sarebbe l'obbligo mio. Ma in tutte quelle cose, dove avesse mancato il poco sapere e giudicio mio, supplisca la molta dottrina e cortesia di tutti voi.

IL FINE

Proemio dell'Editore. pag. III

Note al Proemio pag. XIX

Breve Vita di Tullia d'Aragona pag. XXI

Note alla Vita pag. XXV

Catalogo delle Opere di Tullia d'Aragona pag. XXVII

Note al Catalogo pag. XXX

Alla molto eccellente signora Tullia d'Aragona pag. 3

Allo illustrissimo signore Cosino de'Medici pag. 9

Dialogo della Infinità di Amore pag. 11