Cicci, Maria Luisa
"Poesie di Maria Luisa Cicci tra gli Arcadi Erminia Tindaride"
Parma: Tipi Bodoniani, 1796
ELOGIO STORICO DI MARIA LUISA CICCI TRA GLI ARCADI ERMINIA TINDARIDE SCRITTO DAL DOTTORE GIOVANNI ANGUILLESI PISANO
[p. I]
Nel presentare per la prima volta al pubblico
italiano i componimenti di una giovane
poetessa rapita poco fa alle Muse ed alla crescente
sua fama, mi è sembrato che alcune notizie
della sua vita benchè semplicissima avriano
potuto interessare coloro che con piacere
leggeranno i di lei versi. Ecco il motivo
del presente Elogio non comandato dall'adulazione
o dall'interesse, ma dettato dalla verità,
e dal sentimento della più pura amicizia.
[p. II]
Nacque Maria Luisa Cicci in Pisa il dì
14 Settembre dell'anno 1760 da Domenico
Alessandro Cicci nobile Pisano e dottore
dell'una e dell'altra legge, e da Maria Anna
figlia di Gio: Gaetano Pagnini Capitano
Comandante dei Cavalleggieri di Rosignano.
All'età di due anni ebbe la disavventura
di perdere la tenera sua genitrice,
disavventura fatale talvolta al di lei sesso,
allorquando chi veglia al governo della famiglia
non sa a certi riguardi vestirsi
opportunamente del carattere di madre. Luisa
fu in ciò appunto assai fortunata. Il suo
buon genitore si addossò dell'intero la cura
di educarla coerentemente alla di lei nascita
fino all'età di otto anni. Subì allora Luisa
il destino comune in Italia alle fanciulle
civili, e prima nel monastero di Santa Marta,
indi in quello di San Bernardo, ambedue
in Pisa, passò i teneri anni di sua giovinezza.
Questa sorta di educazione, che
ha contro di sè le teoríe più celebri de'
moderni scrittori; che sembra contraria ai
dettami della natura; che adulando l'ozio
[p. III]
indolente de'genitori, gli determina ad
allontanar da sè stessi delle creature innocenti
che hanno i più sacri diritti all'affettuosa
lor vigilanza, per affidarle a persone
straniere, alle quali ben poco o nulla
interessar dee la futura sorte dei pegni che
lor si confidano; questa foggia di educazione,
io dico, potrà sempre vittoriosamente
rispondere alle incessanti querele della
filosofia, quand'anche oppor non sapesse
che il solo esempio di Luisa all'autorità dei
moderni sistemi. Ella infatti nel sacro ritiro
in cui passò la prima sua fanciullezza
attinse i germi felici delle belle virtù, che
tanto poi ammirar la fecero nel mondo;
ivi acquistò la dolcezza, l'affabilità, la
sommissione a' suoi maggiori, il profondo
rispetto alla Religione; ivi formossi quel suo
cuore tenero, docile, compassionevole, per
cui divenne ben presto l'amore delle compagne,
la delizia delle superiore, ed il più
dolce e squisito trattenimento del padre.
Era questi uno di quegli onesti e savj
cittadini, che stimano dover consistere tutta
[p. IV]
la gloria d'una femmina nell'esatto esercizio
delle domestiche virtù, indipendentemente
da ogni ornamento di scienza e d'erudizione.
Versato fino dalla sua gioventù
nella bella letteratura non meno che nella
giurisprudenza, ma felicemente imbevuto
delle antiche massime e dei sensati pregiudizj
de' nostri maggiori in fatto di femminile
educazione, egli era intimamente
persuaso che una donna ha dei doveri troppo
sacri ed importanti da adempire, per
poter con serietà applicarsi allo studio,
incompatibile sempre colle domestiche faccende
e colle moltiplici incombenze di una
buona madre di famiglia. Vietò quindi
a sua figlia ogni sorta di applicazione, che
non avesse relazione immediata coll'arte
del cucire, del ricamare e di tali altri
donneschi esercizj; e spinse le sue cautele
fino al segno di far da lei allontanare
nel monastero ogni mezzo onde esercitarsi
a scrivere. Non potea il buon padre fino
d'allora prevedere di che saria un giorno
stata capace Luisa, e quanto splendore aggiunto
[p. V]
avrebbe alla patria ed alla famiglia;
ei la credè una donna di spiriti ordinarj,
e geloso della purità dei costumi e del cuore,
temè d'infonderle il veleno della letteratura,
la pedantería della dottrina, e l'orgoglio
insolente della filosofia.
Ma i timidi provvedimenti dell'umana
prudenza sono ritegni troppo fragili all'urto
irresistibile della natura e del genio.
Ei si fa strada attraverso gli ostacoli; e chi
è destinato ad essere un Ovidio, un Tasso,
un Boileau, ad onta di ogni autorità e violenza
paterna farà dei versi immortali, e i
tardi posteri inebriati dalla lettura delle divine
produzioni del figlio, perdoneran di
buon grado agli sforzi impotenti del genitore.
Malgrado qualunque ostacolo era nata
Luisa per essere la Saffo della Toscana.
Aveva potuto legger di furto qualcuno de'
nostri poeti, ed erasi sentita poetessa. La
scrupolosa vigilanza del Padre potea bensì
toglierle i mezzi ordinarj di scrivere, ma
quella imperiosa necessità che sente il vero
[p. VI]
genio di sfogarsi e di spandersi, suggerille
mezzi straordinarj ed impensati onde soddisfare
alla mal repressa sua inclinazione.
Un nero grano di uva le tenea luogo talvolta
di calamajo e d'inchiostro, e tuttociò
che poteavi più comodamente intingere
formava la sua penna. In tal guisa scrisse
ella i primi suoi versi nel monastero in un'
età in cui altri appena s'accorge che havvi
una differenza tra il verso e la prosa. Coloro
che non ignorano con quai lenti passi
sia dato agli uomini d'attinger la meta della
perfezione in ogni facoltà, coloro che si
rammentano i lunghi disagi dell'incerta e
scabrosa via di Parnasso, e quanti sudori
sia loro costato il possedimento di qualche
fronda d'alloro, immagineranno facilmente
quali esser dovettero le poetiche primizie
di una tenera donzella, che avea compiuti
appena i due lustri. Vero è nondimeno
che in alcuno di quegl'informi componimenti
da me a caso veduti, comecchè sfuggiti
alle fiamme, a cui ella stessa aveali
condannati in età più matura, brillavano
[p. VII]
de'lampi non rari di quel bello eminente
che dovea un giorno campeggiar da per
tutto nelle sue poesie.
Richiamata alla casa paterna all'età di
anni quindici trovossi Luisa in istato di
concedere un più libero sfogo alla propria
inclinazione. Il genio qualunque siasi più
elevato e felice ha d'uopo d'esser educato.
Sentivasi ben essa il genio poetico, e
sentì pure il bisogno di questa educazione.
Ma come educare il genio poetico? Chi può
dar precetti al talento creatore, all'ardente
immaginazione? Chi insegna ad esser grande,
delicato, e sublime? La natura ci dispone
a divenir tali, ma tali non ci fa.
Lo studio adunque de' poeti grandi esser
deve il primo precettor dei poeti, se vero è
che più insegnano una statua greca, un
quadro di Raffaello ben considerati, che
un lungo tirocinio nelle più astruse e ricercate
teorie dell'arte.
Fu il Dante uno de' primi poeti, che
richiamassero la seria attenzione di Luisa,
e fu quello che sempre più amò, più studiò,
[p. VIII]
e più spesso si compiacque citare che
qualunque altro. Dante, l'inimitabile Dante,
forte, energico, maestoso, pittoresco,
talvolta per altro più oscuro che sublime,
più basso che semplice, più fantastico che
immaginoso, più sfrenato che libero, fu il
modello primo, fu il maestro della più
gentile, della più tenera, della più castigata
fra tutte le poetesse. Allorquando i di
lei versi avranno il conio dell' antichità,
quando il suo nome esigerà dai nostri discendenti
la venerazione che ora esigono da
noi quelli di Corinna e di Saffo, un qualche
dotto ed acuto commentatore si applaudirà
forse d'aver potuto scoprire qualche
segreta affinità tra i versi del gran padre
dell'italiana poesia, e quelli della egregia
nostra concittadina. Niuno intanto dei
moderni lettori saprà per avventura ravvisarvene
alcuna, se non che, essendo essi
pur certi che dallo stile ruvido ed incolto
della divina Commedia trasse Luisa i primi
germi del suo poetare delicato e gentile,
si affaccerà facilmente alla loro immaginazione
[p. IX]
l'amabile Dea delle grazie scaturita
già dai torbidi e spumosi flutti del mare.
Comunque ciò siasi, la nostra poetessa
fu sempre in grado estremo sensibile alle
bellezze di Dante, godeva recitarne a memoria
i più celebri squarci, ed anche ne'
luoghi più reconditi e meno lodati della
divina Commedia sapea scoprire colla più
fina penetrazione tutto quel bello che sfugge
facilmente alla debole vista de' leggitori
ordinarj. Ella non ne ignorava, nè sapea
dissimularne i difetti, che cercò sempre
ad ogni costo di sfuggire ne' suoi componimenti,
ne' quali parimente si guardò bene
d' imitar troppo da presso il favorito
Alighieri laddove è veramente grande e sublime,
laddove è veramente immaginoso ed
energico, laddove è inimitabile. Ella ben
conoscea le proprie sue forze, e la caduta
lacrimevole di qualche moderno poeta, che
troppo da vicino ha osato misurarsi con
quel pericoloso originale, l'avvertì di buon'
ora ad aprirsi una strada del tutto diversa
per giungere al tempio della immortalità.
[p. X]
Nella sua foggia per altro di poetare
non perdè mai di vista il suo primo maestro;
cercò di dipinger vivamente, d'imitar
la natura, di parlare al cuore ad esempio
di lui, servendosi di mezzi affatto differenti.
In questa guisa soltanto sa esser
imitatore il vero genio, quel genio franco
e generoso, che proponendosi nel cammin
della gloria una scorta di sè degna, non
oblía le proprie sue forze, che sentesi grande
ed originale da sè, e che è ben sicuro
che altri un giorno renderà a lui l'omaggio
stesso, che egli si è gloriato di rendere
all' anteriorità ed al merito.
Malgrado tutto lo sforzo di sua prevenzione
in favore del prediletto Alighieri, alla
prima lettura del Petrarca sentì Luisa
farsi la più forte violenza al suo cuore dal
dolce incanto che ispirano i celestiali concenti
di quel poeta passionato e sublime.
Niuno degl' infiniti di lui imitatori le fu
ignoto, nè v'ha scrittore di qualche nome
nel cinquecento, che ella non volesse leggere
e gustare. Ammirò ne' due nostri grandi
[p. XI]
Epici il genio redivivo di Marone e d'Omero;
e quantunque per certa segreta simpatía
nata forse dall'amore che essa nutriva
per tutto ciò che avea l'aria di più esatto,
di più corretto, e di più ordinato, ella inclinasse
alcun poco all'altissimo Cantor di
Goffredo, non sapea risolversi a dargli nel
suo cuore una decisa preferenza sopra il divin
Ferrarese. Gustando perfettamente ambedue,
e considerando il troppo diverso
sentiero da essi scelto per giunger, come
fecero, all'apice della gloria, ridevasi degl'
inutili e inadeguati paragoni dal cieco spirito
di partito e dalla erudita ciarlatanería
istituiti a loro riguardo, e sdegnavasi più
ancora delle sciocche ed inette critiche
contro l'uno o l'altro dei due grandi epici,
critiche impotenti e spregevoli, che dopo
poche ore di vita sono condannate ad ingrossare
delle oscure miscellanee, ed a nascondersi
fra le polveri di una biblioteca,
per ivi attendere dopo qualche secolo la
mano benefica di un pedante editore, che
stoltamente applaudendosi di sua scoperta,
[p. XII]
le tragga anche una volta per pochi istanti
alla luce, onde rientrar poi irrevocabilmente
nel loro nulla.
Lesse parimente i traviati scrittori del
seicento, e compianse in essi, e molto più
nel Cavalier Marino primo loro esemplare,
un abuso lagrimevole d' immaginazione e di
stile. Dalla folla di questi seppe distinguer
per altro il Conte Fulvio Testi imitator
felice d' Orazio e di Pindaro, degno di
un miglior secolo e di un fine più fortunato.
Ma i componimenti anacreontici dei due Liguri
immortali Chiabrera e Frugoni fissarono
più che altri l' attenzione della nostra
poetessa. Conobbe che un tal genere di poesia
in Italia assai meno comune degli altri
era quello a cui richiamavala il naturale
suo genio, e pensò che in quel genere restasse
ancora da coglier qualche fronda di
lauro non vile, e da arricchire di qualche
nuova gemma il Parnasso italiano.
Intanto ben considerando che mal può
giungere ad un grado distinto nella poesia
chi, dandosi a spaziar perpetuamente nel
[p. XIII]
regno della fantasia e dell'immaginazione,
trascura di arricchir l'intelletto con lo studio
delle severe dottrine, ed avvezza ella
stessa a non poter apprezzare, malgrado
tutta la pompa degli ornamenti esteriori,
quei vuoti componimenti chiamati da Orazio
"Versus inopes rerum nugaeque canorae"
si applicò per tempo alla buona filosofia,
ed apprese a conversare con i Locke ed i
Newton, anche prima di familiarizzarsi con
i Milton ed i Shakespeare. Fece un completo
corso di fisica; volle apprendere col mezzo
della Storia i costumi e le vicende delle
antiche e moderne nazioni, s'internò nel
misterioso laberinto della mitología, e seriamente
occupossi ad ottenere la più profonda
cognizione e la maggior purità della
lingua nativa[1].
[p. XIV]
Non fu dato a Luisa di legger ne'loro
fonti i classici greci e lantini. Versata profondamente
nella francese non meno che nella
propria lingua, mancavale il soccorso delle
antiche lingue di Atene, e di Roma. Seppe
almeno fare scelta delle migliori versioni,
per mezzo delle quali potè spaziare assai
francamente tra gl'immensi tesori della antichità,
e venerare i primi esemplari di ogni
bello poetico. In tal guisa, se le fu
permesso soltanto di vagheggiare, per dir
così, i ritratti di Virgilio e d'Orazio, ebbe
agio di contemplar più da presso le originali
bellezze del principe di tutti i poeti
con la sicura e dilettevole scorta del principe
di tutti i traduttori, l'immortal Cesarotti.
In tal guisa ella potè riconoscer sè
stessa nel delicato Anacreonte e nel tenero
[p. XV]
ed ameno Catullo, il genio riunito de'
quali spiccava già chiaramente in qualche
sua leggiadrissima Anacreontica, che incominciò
a girare per le mani degli amatori
della poesia in tempo in cui appena conosceasi
il nome della modesta e timida autrice:
così un gruppo di viole nascenti giace
inosservato e nascosto tra l'erbe, mentre
all' intorno diffondendosi la sua grata fragranza
ricrea gli spiriti dello stanco agricoltore,
ed annunzia il bramato ritorno di
primavera.
Ben poco trovò l'invidia da mordere in
queste prime produzioni di Luisa; ma l'invidia
è ingegnosa, e ricorse perciò ad un,
accusa, che d'ordinario accogliesi con trasporto
da certa classe di persone, la di cui
inerzia e dappocaggine soffre un continuo
rimprovero dall'altrui merito. Paragonabile
pe'suoi talenti e pel genere stesso di
poesia da lei scelto alla celebre Deshoulieres,
ebbe Luisa di comune con la poetessa
francese anche il destino di non esser creduta
autrice de' primi suoi componimenti.
[p. XVI]
Consideraronsi come opera di qualche parziale
suo amico, e si osò perfino indicar la
persona a cui voleasi attribuirne l'onore.
Fortunatamente deluse furono ben presto la
diffidenza e l'invidia, e gli amici della verità,
gli uomini sensati e di gusto conobbero
apertamente l'insussistenza di tale accusa,
e ben convinti che di rado trovansi uomini
abbastanza generosi per rinunziar tranquillamente
ad altrui tutto il possesso di una
gloria eminente, di cui potrebbero ornarsi
eglino stessi, rendettero giustizia a chi si
dovea, e la Colonia degli Arcadi Alfei si affrettò
di annoverare tra le sue pastorelle la
nostra gentil poetessa[1].
Se i vecchi pastori della nostra Colonia,
che si pregia d'esser figlia primogenita
dell'Arcadia di Roma, credettero per avventura
[p. XVII]
di accrescer lustro alla fama nascente
della giovane alunna, ammettendola tra
i sacri loro boschi pieni ancora dei canti
immortali dei Venerosi, dei Filicaja[1],
degli Zucchetti, dei Poggesi e delle Borghini,
ella ricambiò ben con usura l'onore che
riceveane, rendendo famoso per sempre ne'
fasti della poesia insieme col suo nome arcadico
di Erminia Tindaride quello ancora
della illustre accademia cui piacque così
nominarla.
[p. XVIII]
Non fu Erminia una pastorella oziosa.
Soleva immancabilmente assistere alle pubbliche
adunanze degli Arcadi, dei quali
formava la più squisita delizia ed il principale
ornamento. Era questo il vero campo
della sua gloria. Qui recitava essa i leggiadri
suoi componimenti, e rapiva gli animi
degli uditori non meno coll'intrinseca
eccellenza dei versi, che con l'incanto della
sua voce armoniosa ed insinuante, del
suo gesto insieme animato e composto, de'
suoi sguardi scintillanti di vero fuoco poetico.
Pareva che quell'estro medesimo, che
nel domestico silenzio aveale ispirato le
pellegrine immagini e il bello stile che tanto
onor le facea, si ripetesse in lei mentre
pronunziava in pubblico le cose sue,
e violentava, per dir così, l'ammirazione
e gli applausi universali e sinceri de'
suoi concittadini, in quella guisa, che Corinna
traeva a sè i gloriosi suffragj degli
olimpici spettatori ed ecclissava il gran Cigno
di Tebe.
[p. XIX]
Ma non sempre l'orecchio sedotto dalla
segreta magía di una imponente artifiziosa
declamazione è atto a giudicar rettamente
del merito di una poesia; e l'uomo di
gusto trovasi bene spesso ad arrossire del
proprio inganno, allorchè una riflessiva ed
attenta lettura gli scuopre l'ingiustizia di
quegli encomj, che si è lasciato carpire come
di furto da un accorto e baldanzoso recitante.
Non così avveniva a coloro che poteano
aver agio di legger successivamente
le poesie d'Erminia già da lei recitate.
I più severi ed accigliati aristarchi, coloro
che amano per ogni dove di trovar da
riprendere, e, simili a' que' vili insetti, che
si posano soltanto sulle immondizie, sfuggono
bruscamente tutto quel bello che lor
si fa incontro, per deliziarsi poi a sfogar
la dotta lor bile su quei difetti, quos humana
parum cavit natura, costoro, io dico, si
trovarono bene spesso delusi nelle loro scrupolose
indagini, e sentirono a loro dispetto
che tutto il possente antidoto del pregiudizio
e della pedanterìa non era bastante a didifenderli
[p. XX]
dall' ammirazione e dal piacere
che loro ispiravano i componimenti d'Erminia.
Quantunque pressochè in ogni genere
di lirica esercitasse ella il suo talento versatile
e fecondo, quantunque di essa rimanganci
tuttavia Sonetti e Canzoni, che
avrian dato nome ad un poeta del cinquecento,
il genere anacreontico ebbe costantemente
il suo più deciso favore. Questa
sorte di poesia che potè render tra i greci
uguale a quella di Pindaro la celebrità del
buon vecchio di Teo, se si eccettuano i due
gran Lirici Chiabrera e Frugoni, e pochi
altri prima e dopo di essi, non vantava
fino ai dì nostri in Italia[1] un corredo di
[p. XXI]
seguaci degno della nobiltà di essa, é proporzionato
alla fortunata indole di nostra
lingua, che possiede più che altra mai le
grazie e la delicatezza della greca, e lo
stesso esterior meccanismo dei metri d'Anacreonte.
Se non havvi luogo di credere
che la schiera dei Lirici italiani datasi
prima a pianger con Petrarca, poi a
volar con Pindaro e Flacco, abbia sdegnato
di scherzar delicatamente con Anacreonte
[p. XXII]
e Catullo; se è vero altronde che le grazie
semplici del Correggio sieno più difficilmente
imitabili che i forti e vigorosi tratti
di Paolo Veronese, non potrebb'egli sospettarsi
che per un motivo poco dissimile sia
stata più comunemente coltivata la sublime
canzone che la tenera anacreontica?
Questo ameno componimento che esige una
squisitezza superiore a quella d'ogni altra
specie di poesia, una fluidità, una facilità,
per cui l'arte si nasconda, e comparisca in
tutto il suo candore la bella e semplice natura;
che aver dee una condotta piana e disinvolta
ove campeggi una certa vivezza
che tutto esprima in vaghe e spiritose maniere;
che rigetta ogni pompa di sfoggiati
ornamenti, vestendosi soltanto di quella
grazia e dolcezza che deriva dalle scelte
parole bene insieme congiunte, e dalle ingenue
e delicate sentenze; che si offende
del più lieve difetto, della più insensibile
negligenza, e perfino di certa struttura di
verso alquanto ingrata ad un orecchio musicale;
che non soffrendo uno stile pomposo
[p. XXIII]
e sublime, ma tenendosi costantemente
nel difficil sentiero della nobile mediocrità,
sdegna al contrario tutto ciò che sente alcun
poco di basso e volgare; questo componimento,
io dico, questo genere di lirica
che io chiamerò popolare, non sarà mai
il più frequentato da coloro che temono il
giudizio severo e difficile della moltitudine,
dal quale credono disimpegnarsi, ricoprendosi
della sacra caligine pindarica, e
correndo a spaziar tra le nuvole. Oltredichè
è da riflettersi che havvi in ogni scrittore
certa particolare organizzazione, certa
determinata tessitura di nervi, certa disposizione
in una parola per uno piuttosto
che per un altro genere di componimento;
e chi possiede un estro atto ai gran voli,
vivo, impetuoso, fantastico, ma non sentesi
altronde un cuore tenero, affettuoso,
sensibile alle dolci e delicate passioni, innalzerà
bensì fino agli Dei immortali coi
suoi canti sublimi i fortunati vincitori di
Elide, ma non si vedrà mai svolazzar sopra
il capo la colomba di Venere, nè addormentata
[p. XXIV]
la troverà placidamente tra le corde
della sua lira[1].
Il carattere di Erminia era appunto, siami
permesso così esprimermi, tutto quanto
anacreontico. Purissimi erano i di lei
costumi, castissimi i di lei pensieri, sensibilissimo
e delicatissimo il di lei cuore.
Possedeva ella nel più alto grado quel
candore ingenuo, quella toccante semplicità
che rendono la virtù stessa più amabile
ed interessante, ed ispirano insieme
la tenerezza e il rispetto. Saggia senza ostentazione
e senza vanità non facevasi nè
una pena nè un merito dell'adempimento
de' proprj doveri. Era il suo spirito naturalmente
gajo e piacevole, ed essa mai
non cercava di diminuirne la giocondità ed
il brio, non curando d'ispirar negli altri
la venerazione e il rispetto col debole e
fallace mezzo di una nojosa affettata serietà.
[p. XXV]
Dopo la morte del di lei Genitore il Fratello
della nostra poetessa[1], Cavaliere
non meno apprezzabile pel suo rango, che
per la coltura del suo spirito e per le ottime
qualità del suo cuore, si era fatto il
più scrupoloso impegno di secondare il genio
di sì degna sorella che egli amava teneramente;
talchè la loro casa divenne, per
dir così, il tempio d'Apolline, ove una vera
Musa presedeva, e quanto eravi di più
culto nella Città concorreva ad ammirare
le amabili e rare qualità d'Erminia, ed a
trar piacere insieme e profitto dalla di lei
soavissima ed istruttiva conversazione, ricercata
ancora con avidità da tutti i letterati
stranieri, che tratto tratto capitavano
in Pisa. Pronta sempre a rilevare i meriti
di ciascuno dei circostanti, come a dissimularne
[p. XXVI]
i difetti, o a dar loro un aspetto
meno spiacevole o più degno di scusa, sapea
cattivarsi l'ammirazione e la riconoscenza
degl'ignoranti e dei dotti. Con questi
mostrava sempre d'apprender qualche cosa
da loro anche quando gl'istruiva, come
non di rado accadeva, talchè partivansi
contenti di sè stessi non meno che di lei;
con quelli sapea nasconder la propria dottrina
ed i suoi lumi, e adattavasi alla loro
intelligenza, quasi fosse più gelosa del loro
amor proprio, che della propria sua gloria.
Le sue amiche conversando con lei
nulla accorgeansi della superiorità del suo
spirito; poichè con quell'istessa modestia,
con quella graziosa disinvoltura con cui
parlava di storia, di poesia, di letteratura,
di critica, si piegava a ragionar seriamente
di faccende donnesche, della moda
del giorno, nè mai trovavasi fuori della sua
sfera. Suole la letteratura, la somma abilità
render anche involontariamente orgogliosi
coloro che le posseggono. Il confronto che
fanno di sè stessi con tanta moltitudine a
[p. XXVII]
loro inferiore in talento e dottrina gli assuefà
insensibilmente a disprezzarla. Non
così accadeva ad Erminia. Con tante ragioni
d'insuperbirsi, era dotata di altrettanta
umiltà; il suo buon cuore le facea sempre
supporre in altri più merito che in sè stessa;
i versi altrui ottenevano da lei quelle
lodi sincere, che si doveano ai suoi; in
somma la dotta Erminia, l'onore della patria,
era insieme la più modesta donzella,
la più affabile, la più gentile.
Professando il più tenero attaccamento
alla propria famiglia, di cui avea ella formato
sempre la delizia e l'amore, non potè
mai determinarsi per lo stato conjugale.
Non per questo le riuscì sempre sfuggire
alla dolce violenza di una passione deliziosa
insieme e fatale, familiare troppo ai seguaci
d'Apollo. Amore, quella sorgente
inesausta di piaceri e di pene, di tormento
e di gioja, è bene spesso il solo, il vero
Apollo de'poeti. Chi non si è sentito
mai tocco dal suo fuoco animatore, chi
non conosce i suoi delirj, i suoi palpiti,
[p. XXVIII]
lasci pure di strascinarsi inutilmente pel
sentiero di Pindo; indegno del divino consorzio
delle Muse, egli non sarà mai un
poeta; i suoi versi nati in ira ad Apollo
non trarranno mai una lagrima, ed il cuore
de' suoi leggitori risentirà perpetuamente
l'insipida e nojosa calma del suo. Erminia
era però troppo tenera e sensibile, perch'ella
non avesse più volte motivo di lagnarsi
seco stessa dell' inclemenza d'Amore. Di
tali lamenti facea spesso risonar la sua
cetra, e la di lei bell'anima amareggiata
soverchiamente da questa passione, riduceasi
perfino a far degl'inutili voti alla Indifferenza[1]
dietro l'orme del gran tragico
dell'Inghilterra.
Ma un sentimento più tranquillo e pacifico,
l'amicizia, formò costantemente la più
deliziosa occupazione d'Erminia. Ella avea
degli amici; e chi più d'essa meritava d'averne!
[p. XXIX]
A questi era sempre aperto il suo
cuore; prendeva, quanto eglino stessi, interesse
nelle cose loro. Premurosa al sommo
del loro ben essere e della lor gloria,
nulla trascuravasi per parte sua di quanto
poteva contribuirvi, nulla di quanto potea
consolarli ne' loro infortunj. Si saria detto
che ella non sapea vivere che per l'amicizia;
e purtroppo la repentina perdita di
due amiche a lei carissime diede per avventura
la prima scossa fatale alla sua tenue
costituzione. Da quel tempo, che precedè
di pochi mesi la sua morte, parve che
il di lei spirito andasse ogni giorno perdendo
di quella piacevole e graziosa giocondità,
che rendea sì desiderabile la sua
compagnia. Le sopravvennero tratto tratto
alcune leggere indisposizioni di salute che
essa trascurò contro il parere de'suoi parenti
ed amici. Tuttavolta parevane affatto
ristabilita, allorquando fu assalita repentinamente
da un attacco fierissimo di
petto, che nel breve spazio di cinque giorni,
ad onta di tutti i tentativi dell'arte
[p. XXX]
medica, la rapì per sempre alle speranze
degli amici e della patria il dì 8 Marzo
dell'anno 1794 nella sua fresca età di anni
trentaquattro. Nei momenti ultimi della
vita non ismentì Erminia il proprio carattere.
Imbevuta fino dalla sua infanzia dei
principj della più pura morale cristiana,
e penetrata profondamente dalle auguste verità
della religione, avendo nel breve corso
di sua vita procurato sempre di adempiere
colla più scrupolosa osservanza i doveri
che essa prescrive, rassegnò umilmente
il suo spirito ai decreti imperscrutabili
della provvidenza, e morì invocando
il Dio delle misericordie, e lasciando nella
più trista desolazione una famiglia che
l'adorava. Poco prima di sua morte aveva
ella mostrato ardentissimo desiderio che
fossero dati alle fiamme tutti i suoi scritti.
I di lei amici inconsolabili per la perdita
della illustre Erminia si adoprarono
premurosamente onde impedirne l'esecuzione,
e vi riuscirono. La culta Italia,
per la quale si sono conservate, e presentemente
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si pubblicano le di lei elegantissime
poesie, saprà forse buon grado alle
cure di essi, per quel motivo stesso per
cui la posterità ha colmato d'applausi la
memoria di quel gran Principe, a cui si
dèe la conservazion dell'Eneide.
NOTES:
P. XIII (1)
Parlava la propria lingua con indicibile eleganza e facilità, e la scriveva eccellentemente anche in prosa. Qualora si pubblicasse una raccolta di sue lettere, si vedrebbe forse che nulla hanno esse da invidiare a quelle della immortal Sevigné, come le di lei poesìe non cedono in nulla a quelle dell'amabile Deshoulieres.
P. XVI (1)
Ciò fu nel 1783, l' anno ventesimo terzo di sua età. Nel seguente anno fu ascritta all' accademia fiorentina; e quindi nel 1786 a quella degl' Intronati di Siena.
P. XIII (1)
Il celebre Senatore da Filicaja, essendo Commissario di Pisa, interveniva costantemente alle adunanze degli Arcadi Alfei. Tutti gli altri qui nominati sono poeti illustri pisani, le opere dei quali sono ai letterati note abbastanza. Tra questi parimente può annoverarsi Francesco Catelani, di cui abbiamo una traduzione moltiplice delle Odi di Anacreonte molto stimabile, che egli pubblicò sotto il nome arcadico di Cidalmo Orio.
P. XX (1)
Le bellissime Canzonette del Rolli e del Metastasio non sembrano appartenere propriamente al genere anacreontico, che è stato trattato con felicità da alcuni de'nostri poeti viventi. Assai maggior numero di seguaci conta questa poesia tra i Francesi; quantunque e per l'indole della loro lingua, e pel genio stesso della nazione portata naturalmente allo spirito ed alla vivacità, siansi meno avvicinati alla ingenua semplicità e delicatezza della greca anacreontica. Contuttociò i componimenti in questo genere di Voiture, di Chapelle, di Chaulieu, di la Motthe, di Voltaire, di Gresset, di Bernard, di Dorat, e di varj altri, sono deliziosissimi, pieni di grazia, di gentilezza e d'immagini graziose e brillanti.
P. XXIV (1)
Anacr. Ode IX.
P. XXV (1)
A questo degnissimo Cavaliere (Signor Paolo Cicci) deve il pubblico l'edizione presente delle poesie d'Erminia, che egli fa a sue spese per dispensarla a'suoi amici.
P. XXVIII (1)
Ved. Sciolti all'Indifferenza tradotti da Shakespeare.
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