Veronica Gambara
Undici lettere inedite
Edited by Luigi Amaduzzi
Guastalla: R. Pecorini
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Cenni biografici di Veronica Gambara(1)
Tre donne vennero in maggior fama di letterate
nel secolo XVI; Vittoria Colonna, Gaspara Stampa,
e Veronica Gambara. Moltissime altre coltivarono le
lettere in quel tempo; di esse alacremente oggi si
studia richiamare la memoria onorevole e ridonarla
al culto dei moderni. Dissi molte altre, ma le tre nominate
tennero il primato su tutte. La data della
loro nascita varia di pochi anni, quella della morte
quasi coincide. La Gambara nacque il 30 Novembre
1485, nel novanta nascerà la Colonna, trentaquattro
anni dopo, la Stampa. Nel 1550 morì la Gambara, tre
anni dopo, la Colonna; nel cinquantaquattro si spense
la Stampa. Erano adunque tre stelle che risplende.
vano ad un tempo nel cielo letterario d'Italia.
Un luogo assai popolato del territorio bresciano,
detto Prato Alboino, che fu feudo della nobilissima Famiglia
Gambara, diede i natali alla nostra Veronica.
Suoi genitori furono il Conte Gianfrancesco Gambara
e Alda Pia da Carpi, personaggi ragguardevolissimi,
siccome le istorie mostrano. Veronica ebbe quattro
fratelli e due sorelle; Camillo, Uberto, Brunoro,
Ippolito, Violante ed Isotta, tutti non meno per azioni
che per letteratura illustri. Aveva essa sortito
da natura un ingegno assai vivace, penetrante, e
molta inclinazione per le lettere, alle quali si diè fin
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da' più teneri anni. Chi fosse suo maestro negli
studi non è chiaro; taluni affermano il Bembo, col
quale fu in domestichezza, ma molti dubbî sorgono
leggendo alcuni passi delle poesie di lui. Quello che
più manifesto appare, si è che della guida e del patrocinio
del Veneziano molto profittevolmente si valse
la Gambara, come attesta il fatto che a lui per
primo mandava ogni suo poetico componimento ed
attenevasi al suo giudizio, come a quello che autorevole
stimava. Attese con amore ad imparare la lingua
latina, e anche la greca(2), si applicò con vero
ardore allo studio delle sante Scritture e della Filosofia,
nella quale ottenne la laurea. Senonchè queste
varie discipline dovevano servire alla Nostra
quale materia di erudizione e di dottrina a coltivare
la poesia, alla quale era tratta da un sentimento
profondo e squisito, che la guidava in ogni sua azione.
E dalla poesia non meno che dall' esercizio
delle virtù civili e domestiche, ben presto si ebbe
un nome chiaro. Piacque a Giberto X, Signore di
Correggio, valoroso e prode, cui era morta la prima
moglie, di contrarre le nozze con sì illustre Donna,
e, chiestala in isposa al padre di lei, la ottenne, e
si celebrarono gli sponsali verso la fine dell'anno
1508, come pare risulti dal Breve di dispensazione
che fu necessario ottenere dal Pontefice, stante la
parentela che esisteva fra gli sposi per parte della
madre di ciascuno.
Così la Gambara si condusse a Correggio con grande
gioia de' suoi sudditi, in età di 24 anni. Incominciava
per la Nobile Donna una nuova vita, in
cui ella doveva spiegare tutto lo splendore delle sue
doti civili e domestiche, mostrandosi moglie affettuosa,
madre saggia, signora amorevolissima. Ne' primi
anni del matrimonio ebbe due figli, Ippolito e
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Girolamo, e in appresso non ne ebbe altri, perchè,
caduta in una grave malattia, permise che le somministrassero
un rimedio che la rese sterile. Mentre
giaceva in letto per la nascita del suo secondo figliuolo,
ebbe l'amarissima notizia della morte di suo
padre e risolse di recarsi in Brescia a consolare l'afflitta
madre. Pochi giorni dopo infatti, quantunque
non ancora perfettamente guarita, vi andò. Ma
quale pericoloso avvenimento l'attendeva! — In quei
giorni la città di Brescia si difendeva accanitamente
contro ai Francesi guidati dal valorosissimo Gastone,
finchè dovette capitolare, e fu posta a sacco.
La nostra Gambara a stento scampò dalla violenza
della soldatesca, nascondendosi nella rôcca, donde
potè fuggire e restituirsi alla sua Correggio.
Col consorte Giberto che l'amava teneramente,
passava la vita nella gioia più pura, e attendeva a
comporre leggiadrissime rime, nelle quali celebrava
l'amor coniugale, e gli occhi splendenti del suo Giberto.
Se non che, la delizia di quella vita così
ridente non doveva durar lungo tempo per essa. Il
giorno 26 d'Agosto del 1518 fu fatale per la gentile
Contessa, poichè le tolse per sempre colui, al quale
avea dato se stessa. Rimasta vedova, e immersa nel
più profondo dolore, non cessò giammai di piangere
con versi pieni di sentimento la morte dell'amato
consorte, rinunciando alle molte e vantaggiose occasioni
che le si offrivano per passare a seconde
nozze. Sulla porta de' suoi appartamenti, che ella
volle fossero addobbati a lutto a significare la forte
determinazione di non voler accettare un nuovo
stato coniugale, stavano scritti i versi di Virgilio:
« Ille meos primus, qui me sibi junxit, amores »
« Abstulit, ille habeat secum, servetque sepulcro. »
Nè solo gli appartamenti, ma eziandio le vesti usò
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nere. Sempre andava velata in quasi tutta la persona,
e persino i suoi cavalli teneva nerissimi vieppiù
che notte, perchè conformi proprio a' suoi travagli(3).
Colla morte di Giberto, rimasta Veronica Gambara
usufruttuaria delle facoltà di lui e tutrice dei figli,
si diede a provvedere alla educazione e allo stato
loro che desiderò degno del nome. Nel governo spiegò
tanto zelo, tanta saviezza e tanta amorevolezza
verso i suoi sudditi, che se li rese carissimi. Mandò
ad effetto il matrimonio delle due figliuole, Ginevra
e Costanza, che Giberto aveva avute dalla prima
moglie; quella fu sposata al Conte Paolo Fregoso di
Genova, questa ad Alessandro Gonzaga, Conte di
Novellara.
Non le rimanevano più che Ippolito e Girolamo, a
cui assegnare conveniente stato e questo incamminò
per la via ecclesiastica, l'altro in quella delle armi;
ed entrambi furono sempre quali la madre loro li
aveva educati. Ippolito partecipò a varie guerre ove
diede prova di grande valore e coraggio; Girolamo
giunse all'onor della porpora;(4) ma l'affettuosa madre
non ebbe la consolazione di vederlo in sì alta
dignità.
Nel governo del suo Stato non trascurava Veronica
di operare ogni cosa pel bene de' suoi sudditi, per
soccorrere i quali avrebbe dato tutte le sue sostanze.
Scriveva a M. Lodovico Rossi(5)) quando il suo Stato
era oppresso dalla carestia « Noi stiamo tanto male,
che se Dio non ci aiuta, dubito che la maggior parte
di questa terra morirà di fame. Mando questo
mio a posta per dirvi il bisogno appieno; vedete
se fosse possibile il cavar grani di Romagna, ed
avvisatemi il prezzo, perchè mi risolvo e per debito
e per pietà s'io dovessi impegnar me stessa, di
soccorrere questi miei uomini.»
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Nell'anno 1528 Clemente VII mandò al governo di
Bologna Uberto Gambara, fratello di Veronica; e
questa si trasferì parimenti colà per dimorarvi alquanto.
Intanto l' Italia agitata convulsamente da
grandi mali, festeggiava la venuta di Carlo V(6) dal
cui arbitrio pendevano le sue sorti. Allora Veronica
ebbe agio di visitare colà anche l'altro fratello Brunoro,
che vi si era recato, quale gentiluomo di camera
dell' Imperatore. La casa della Gambara divenne
una vera Accademia, ove ogni giorno s'accoglievano
a discutere su nobili questioni di studi il Bembo, il
Capello, il Molza, il Mauro, e quanti mai si erano colà
recati ad onorare il convegno di Clemente VII e
Carlo V, convegno stabilito nel trattato di pace di
Barcellona. Nel partire da Bologna, l'Imperatore
Carlo V si fermò alcun poco a Correggio(7) in casa
della Gambara, la quale preparò e fece al monarca
un'accoglienza veramente regale.
Nel 1532 si recò la nostra Poetessa a Verola, luogo
della provincia di Brescia, e signoria de' suoi fratelli,
dove pare non si fosse più recata dopo la morte
di Giberto. Rivedendo i suoi luoghi nativi, sentissi
la Gambara ricondurre alle ridenti immagini della
fresca età, e il suo spirito ricreato dalle soave rimembranze,
la risvegliò, la trasse alla poesia, come
fanno fede le belle ottave in lode di Brescia(8). Se
non che, dovendo ricevere per la seconda volta l'Imperatore
Carlo V(9), ritornò in Correggio, dove intese
con ogni solerzia a' suoi doveri di sovrana, e
dove, dando sempre esempio di animo liberale e magnanimo,
visse una vita solitaria e tutta spesa nelle
pratiche religiose. Ebbe un carattere mite e un'indole
dolce ed amabilissima. Fu, secondo alcuni, di
lineamenti più virili che delicati, alta della persona,
con occhi scintillanti e pieni di quella gravità e dol
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cezza che rispecchiano un animo nobile e temperato.
Visse fino al 13 Giugno 1550(10), e in quel giorno
tutto il popolo correggese sentì con dolore profondo
la morte di sì affettuosa sovrana.
Tale in breve, la vita di Veronica Gambara Contessa
di Correggio, la cui fama è legata alla letteratura
non meno che alla storia civile; tale la vita
della Donna illustre che seppe essere moglie esemplare,
madre affettuosa, padrona amorevole.
Opere di Veronica Gambara
Le opere che ci rimangono di Veronica Gambara
sono le poesie e le lettere, oltre un'ode saffica latina.
Le poesie si dividono in trentasette sonetti, due
madrigali, alcune stanze, ed una ballata. Furono
tutte raccolte con le lettere nell' edizione, che io
stimo la più recente, del Barbéra per cura della
signora Pia Mestica-Chiappetti: edizione che ha il
gravissimo difetto che ebbe quella del Rizzardi di
Brescia: moltissime lettere mancano di data, tutte
le poesie di dedica e indirizzo. Alle poesie già edite
non mi fu dato poter aggiungerne alcuna ancora
sconosciuta, per quanto pazientemente abbia frugato
negli archivi e nelle biblioteche, laddove ebbi la fortuna
di rinvenire parecchie lettere che credetti inedite
e però pubblico.
Poniamoci ora ad osservare le rime della Contessa,
e vediamo qual grado e qual posto si debba a lei
assegnare fra i letterati del suo secolo. Che si sia
levata sulla turba degli scrittori del Cinquecento, non
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lo vorremo porre in dubbio, quando sapremo che
tutti i più grandi del tempo l'ebbero in ottima estimazione
e ne cantarono le lodi, desiderando ardentemente
la sua amicizia, onore che non toccò ai mediocri
giammai. La immortalò l'Ariosto nel 46°ree; Canto
dell'Orlando:
« Veronica da Gambara ……
Si grata a Febo e al santo Aonio coro »
La illustrò Bernardo Tasso in due canti dell'Amadigi,(11) lo stesso Rinaldo Corso compose un sonetto
in morte di lei, e le indirizzarono versi la Colonna, il
Bembo, il Marchese del Vasto, il Varchi, il Capello,
il Sanazzaro, Cinzio Giraldi, Lucia Bertana; un'ode
latina compose Nicolò d'Arco,(12)) e moltissimi altri
mostrarono grande ammirazione per essa negli scritti
loro.(13)
Qual giudizio ne dettero gli storici della nostra
letteratura? Il Tiraboschi dice: « Le rime di essa..……
son tali che possono aver luogo fra quelle dei più colti
poeti di quella età:……… e le lettere di Veronica,
per la più parte non ancor pubblicate..… parimenti
sono molto pregevoli per la facile e naturale eleganza,
con cui sono scritte.(14) » Il Corniani così
si esprime:(15) « Il carattere della di lei letteratura aveva
analogia colla struttura della di lei persona grande
e maestosa; che partecipava piullosto della robustezza
virile, che della delicatezza del di lei sesso. Le
sue lettere oltre il pregio di un'elegante semplicità,
che ad essa vien dagli scrittori attribuita, sono improntate
di maturità, di franchezza, di maschile vigorìa
di pensiero, e le sue rime tendono per lo più
ad adornare sentimenti nobili e gravi, benchè talvolta
non corrisponda ad essi lo splendore della dizione. »
Il Ginguenè(16) ne parla più tosto a lungo:
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« Si disse comunemente che avvi nelle sue lettere e
ne'suoi versi un'eleganza ed una dolcezza che si accostano
da vicino a quelle del Petrarca…… ..………
Tuttavia la sua dizione non è sempre splendida,
le sue sentenze hanno per lo più una gravità che
perteneva più al suo carattere che al suo sesso. »
Mostra poi come essa fosse versata nella scuola dei
platonici e dei teologi, e come diletti assai più quando
« pone du un lato il platonismo e la teologia. » E,
parlando insieme anche di Vittoria Colonna, giudica
che sia proprio di entrambe « la nobittà e la purità
dei concetti. » L'Andres,(17) parlando delle lettere
di Veronica, dice: « Lodansi come particolarmente
eloquenti le lettere della Gambara, del caro e del
Bonfadio. » Poi: « Le lettere della Gambara hanno
più sodezza e precisione, (di quelle del Bonfadio)
ma peccano forse per varietà di sentimento e per
troppa semplicità. » L'Emiliani-Giudici(18) non ne
parla partitamente, ma la comprende nel numero
delle Donne illustri del Cinquecento. Assai parco e
sostenuto le si mostra il dotto Cantù(19) il quale
non la dona di una sola parola che la distingua:
« Veronica Gambara da Brescia in gioventù amica
del Bembo, poi per nove anni moglie di Giberto
da Correggio passò la restante vita in casta e studiosa
vedovanza. » Il Marc-Monnier la pone a fianco
di Vittoria Colonna, e ce le addita come quelle
che « plus doucement, moins fortement, versifierent
aussi l'amour conjugal. » Giovanni Mestica nelle
sue Istituzioni di Letteratura Italiana pone le tre
illustri Donne al di sopra di tutte le altre, dicendo
che: «.. … … per la tenerezza dei malinconici affetti
e per la spontanea dolcezza dello stile fra i lirici
del Cinquecento merituno il primo luogo.»
Un forte sentire misto a vera e profonda commozione
[p. 13]
per ogni atto gentile e l'alternarsi di passioni
e di affetti, sono l'impronta viva e reale delle poesie
della Gambara. Dal mirabile e dolce connubio
della sua anima con l'arte, sorge tutta la maschia
fibra temperata alla candida ingenuità della Correggese.
La poesia è l'anima sua, il suo cuore, la sua vita;
con quella s'eleva; per quella l'amore e il dolore la
traggono al culto dell'arte. Ne'suoi versi noi troviamo
profondamente scolpita la donna, nella più squisita
concezione, la donna del Medio Evo rifiorita al
l'aure di una nuova vita. Donna, e compresa del più
puro ascetismo, sente sopra tutto pesare sulle sorti
umane l'influsso delle nuove idee religiose invadenti,
s'adirà contro i calpestatori delle cristiane leggi, e
sprigiona un canto che magnifica l'impresa «
alta »(20) della guerra fra le armi cesaree e i Turchi. E
questo sentimento si rannoda ad un altro non meno
profondo in lei: alla carità di patria, per cui scioglie
dalla sua lira una calda ed appassionata preghiera
affinchè tacciano le armi ostili dei due famosi
rivali.(21) E parrebbe aver tutto il carattere di poetessa
cortigiana, se le lodi che ebbe per Carlo V non trovassero
una ragione nella speranza che la Gambara
aveva, di ritrovare in lui un mezzo di por fine alle
continue sciagure della patria(22) più delle fraterne
ferite che delle estranee sanguinante. Esalta in Carlo
non tanto il conquistatore quanto il magnanimo e generoso,
che, dopo la vittoria del 24 Febbraio 1524,
riporta sui Francesi a Pavia, e fatto prigione il re
Francesco I, conchiude la pace, e dona la libertà al
reale prigioniero, ch' è suo rivale. Odia la guerra
sorta per ingordigia o gelosia di comando, ma trova
giusto e necessario che i cristiani portino le armi
collegate contro i nemici del Cristianesimo, perchè
quella è guerra indetta da Dio.
[p. 14]
Le lettere poi rispecchiano come le poesie, la sua
indole buona, generosa, gentile, appassionata, e sono
dotate di quella semplice eleganza per cui non
ti stancano a leggerle, anzi quasi la lettura di una
ti invita e quella dell'altra, perchè in ciascuna trovi
un sentimento, un concetto nuovo, e tutte intessono
la storia della sua vita, e ti pongono sott'occhio l'amica
affettuosa dei letterati, la pronta al soccorso
dei miseri, la giusta e gelosa custode dell'onor del
suo nome e de'suoi sudditi. Conchiudendo, parmi di
non andar lungi dal vero, nell'affrmare che due Gambare
fa duopo distinguere: l'una che canta gli affetti
domestici più sublimi, più nascosti, più delicati; le
passioni più nobili; l'altra che s'ingolfa nelle tesi
più complicate della Teologia e della Filosofia. Questa
riesce rigida, fredda, rigorosa; quella ci si manifesta
viva, gaia, festante. In questa l'arte sorpassa
la natura, e in quella scompare il convenzionalismo
e irrompe il sentimento. Una tale differenza risulta
da ciò: che l'altezza, la rigidezza e la difficoltà delle
materie da trattare, portarono la rigidezza nelle forma,
non perchè non fosse la Veronica ispirata, che
ispirazione non può mancare a chi possiede come
essa, così profonda convinzione.
Affermarono i più che la dizione non corrispose
sempre alla nobiltà e gravità de' sentimenti. E, a dir
vero, non sarebbe difficile il provarlo coll' esame e
colla citazione di molti passi delle poesie della Veronica
Gambara. Ma un tale lavoro potrà essere materia
di altro studio, più ampio e particolareggiato
sulle opere di questa celebre rimatrice, della quale
intesi ora a descrivere a grandi tratti il merito
letterario, come discorso premesso alle lettere inedite
che qui si pubblicano, nella persuasione di far
cosa grata agli amanti dei buoni studî.
[p. 15]
In ogni modo parmi doversi considerare, che il
vizio che si riscontra nelle poesie della Nostra, la
mancanza cioè di quella sostenutezza, nobiltà e vibratezza
di stile in alcuni luoghi, sia da riguardarsi
come una piccola macchia che nulla tolga al merito
suo, splendendo in lei molti ed eminentissimi
pregi. Simili vizi, ed anche più gravi, troviamo negli
scrittori sommi. Una piccola nube che appaia
sull'orizzonte, non rompe e non turba la tranquilla
serenità di un bel cielo turchino, irradiato dal sole
in una splendida giornata di primavera.
Leggendo le poesie della Gambara avviene non di
rado che essa ci porga modo a paragoni con altri
poeti maggiori, e specialmente col Petrarca alla cui
scuola appartenne, senza seguirne, come altri fecero,
le orme sulla falsa riga; con Virgilio, e con altri
suio contemporanei; come pure da essa tolsero i poeti
posteriori, fra i quali anche il Tasso.
Così Veronica Gambara ha scritto il proprio nome
a caratteri indelebili sulla pagina più gloriosa della
Storia della nostra Letteratura.(23)
[p. 16]
Un' Ode Latina di Veronica Gambara
È da ascriversi a danno delle lettere nostre che
di Veronica non rimanga che un solo componimento
latino, ma di tali pregi, per cui non dubito fin
d'ora di affermare che nulla ha da invidiare alla lirica
del Venosino. Coltivò la Gambara il latino, come
vedemmo, in un tempo in cui era ridivenuto
quasi lingua viva; ma una sola ode saffica ci è dato
assaporare di lei, quasi assaggio della sua potenza
lirica e della profonda conoscenza di quella lingua.
La lettura di quella ci attrae al desiderio di averne
altre, o ci fa supporre almeno che la Gambara
non abbia potuto con un solo tentativo raggiungere
tale altezza. Onde noi siamo indotti a credere che
molte cose sue ancora rimangano sepolte.
L'entusiasmo per la religione che infiammò la
Gambara agli slanci più sublimi della lirica, quello
stesso le trasse dal cuore note di profondo sentimento,
che volle essa cantare sulla lira del divino Orazio.
Quest'ode fu scritta per la vittoria che Carlo V riportò
il 25 Aprile dell'anno 1545 a Mühlberg, dove
fece prigioniero Giovanni Federico Elettor di Sassonia
e Filippo Langravio d'Assia. Il metro è saffico.
Fu scelto avvedutamente, con preferenza, dalla Gambara,
come quello che fu per Orazio il più prediletto
per gl'inni, ed ha lo spirito e l' andatura appunto
di un inno.
All'età di sessantadue anni si sente la nostra Veronica
ancora tratta alla poesia da quel sentimento
religioso e da quella fede ardente che era stato il
dominio più potente della sua anima. Il trionfo dell'esercito
cristiano sul protestante, quel trionfo per
cui aveva fatto sì fervidi voti, le ridona la giovinezza.
[p. 17]
Essa canta:
Auspicat. victoria Cæsari
Inger ingentes pateras minister,
Et rosa undantem Bromium corona,
His dapes festas simul apparato
Non sine cantu.
Affer argutam citharam chelymque
Huc, ubi ad fontis caput Hydroelli
Quercus atque illex foliata densa
Procubat umbra.
Cæsaris jam jam video triumphum,
Jam tubas audire licet sonantes,
Jamque Io et voces resonare ovantum
Littus ad Istri.
Qui, coloratis violenter undis
Sanguine involvit galeas virosque,
Ac liquens divæ in gremium marinæ
Corpora versat.
Barbarus sensit quid Hiberus audax
Quidque jam possit metuendus hasta
Belga, quid testata patrum vigorem
Itala pubes.
En petit supplex veniam rebellis
Teutonus, jam langravium inchoati
Pænitet belli, solida revinctum
Colla catena;
[p. 18]
Ille (nam Dij sic voluere læsi)
Quod sacras auro spoliavit aras
Templa dejecit, simulacra divis
Ignibus arsit,
Sensit ultorem scelerum tonantem
Ac sui oblitus, rationis expers
In Deos vana temerarius vi
Arma paravit.
Militem nullo procul ære duxit
Cæsarem huic sese fore polliceri,
Dum coruscantis Iovis arma jactat
Nulla timere.
Nescius quantum pater ille Divûm
Fulminet telo horribili prophanos
Ætera attollens humiles, superbos
Trudat ad orcum.
Ergo quid lex religiove spreta,
Sanctio aut possit temerata patrum,
Quid fides fraudata, quid ira justa
Cæsaris, ipse
Videris, tuto at mihi nunc licebit
Bromium siccare merum, meique
Cæsaris laudes resonare plectro utcumque
loquaci.
[p. 19]
Lieti auspici a Cesare pe'suoi trionfi
Di piene coppe liete mense appresta
E Bacco spumeggiante orna, o coppiere,
Di rose: un carme per segnal di fes ta,
Canti il piacere.
Qua d'Idroele al fonte ove fronzuto
Stende suoi rami un elce e quercia antica
Tu ne reca la cetra ed il liuto
A l'ombra amica.
Sale al trionfo Cesare; vittoria
Squillan le trombe già; s'espande il grido
Degli esultanti e l'inno de la gloria
De l'Istro al lido.
Il qual, ne l'onde già di sangue tinte
Travolge armi ed armati e in seno al mare
Le informi spoglie de le genti vinte
Corre a versare.
Ciò che potesse l'animoso Ispano,
Il formidabil Belga, e de l'antico
Onor la fede in petto d'Italiano
Provò il nemico.
Il Teutono ribelle umilemente
Ecco perdono chiede, ed il Langravo
Dell'intrapresa guerra omai si pente
Caduto schiavo.
[p. 20]
Ma, (degli offesi Dei tal fu il volere),
Poichè gli altari dispogliò; distrusse
Templi de' Numi e in cenere le intere
Statue ridusse,
Sentì il tonante vindice de' rei;
E fuor di senno, con isforzo vano
L'armi volle brandir contro gli Dei
Con empia mano.
Lontan, senza mercè trasse sue genti,
A cui novello Cesare votossi,
Mentre di Giove non temer potenti
L'armi vantossi.
Ma non conobbe come sul profano
Caggia fatal di Giove il dardo acuto;
Abbia Olimpo l'umil, abbia l'insano
L'Erebo muto.
Ciò che legge o pietà valga spregiata;
Dei padri il detto violato e oppresso
Di Cesare il rigor, la fè beffata,
Vedrai tu stesso.
Io di Bacco il licor mescere intanto
E le lodi intonar solo desio;
Ed alla cetra disposare un canto
Pel Cesar mio.
[p. 21]
Domina in tutta l'ode una soave armonia imitativa,
che molto bene si ottiene coll' accoppiamento dell'adonio
agli endecasillabi, armonia che può sembrare
alquanto soverchia e dare al componimento un'andatura
piuttosto monotona. Non si trova in quest'ode
grande copia di concetti originali, ma si mantiene
grave, maestosa, ispirata, e lo stile vi è terso, la
disposizione delle parti perfetta.
Lettere inedite di Veronica Gambara [Introducton]
Le lettere che vengono pubblicate per la prima
volta, non hanno per sè una speciale importanza,
ma oltre che arricchire l' epistolario della Correggese,
potranno agevolare la conoscenza intima di
questa Donna, di cui ammiriamo l'ingegno, il genio,
la costumatezza, la fede. Debbo pubblicamente
ringraziare l' Ill.mo Sig. Conte Ippolito Malaguzzi-Valeri,
Direttore dell' Archivio di Stato di Modena,
l' Ill.mo Sig. Stefano Davari, Direttore dell'Archivio
Gonzaga di Mantova, e il Sig. Celeste Malagoli Archivista
Comunale di Novellara, dai quali ebbi molta
assistenza nelle mie ricerche. Alcune lettere della
Gambara, rimaste inedite fino al 1884, vennero in
quell'anno pubblicate in Correggio pei tipi Palazzi,
dal Sig. Ferdinando Rossi-Foglia; e quelle non fanno
parte della raccolta dell' Edizione Barbera. Laonde
è invero desiderabile che, sull'esempio dei Chiarissimi
[p. 22]
Signori Ermanno Ferrero e Giuseppe Müller, i
quali raccolsero testè in un elegante volume corredato
di amplissime note storiche il « Carteggio di
Vittoria Colonna pei tipi Loescher » Torino 1889, alcuno
si accingesse a pubblicare un compiuto carteggio
di Veronica Gambara. Le relazioni di amicizia,
di parentela, di interessi di stato, o d' altro che essa
ebbe con letterati, scienziati, artisti, principi, papi
del suo tempo, ci fanno certi che una tale opera
apporterebbe non pochi lumi alla nostra istoria, letteraria,
civile, artistica. Non mi fu dato rinvenire
alcuna lettera della Gambara diretta alla Colonna,
nè potei leggerne sul carteggio nominato, alcuna
della Colonna alla Gambara.
Questo fatto avvalora vieppiù la probabilità che
molta parte della corrispondenza epistolare dell'una
e dell'altra siasi perduta o rimanga dimenticata e
negletta nelle private o pubbliche biblioteche, che
non riuscirebbe facile l'adottare l'opinione che le due
illustri Donne del Cinquecento non fossero in relazione
di lettere fra loro, mentre si indirizzavano a
vicenda sonetti pieni di affetto e di scambievole ammirazione.
In questa pubblicazione tenni il melodo grafico
ed ortografico fedele ai manoscritti.
NOTE
[p. 37]
(1) Questi cenni biografici furono desunti dalla vita di Veronica Gambara scritta dal Dott. Baldasarre
Camillo Zamboni, e posta innanzi al volume delle opere della medesima, Ed.e Rizzardi - Brescia
1759 - Altra vita di Veronica scrisse Rinaldo Corso nativo di Correggio e famigliare suo, e poscia Vescovo
di Strongoli.
(2) Tra i libri del dottissimo Filippo Garbelli, Abate di Pontevico, (così una nota dello Zamboni)
uno ve n'era in lingua greca dell'edizione di Aldo, che portava scritte in fronte con carattere di quei
tempi, le seguenti parole: « Ad usum Veronicæ Gàmbaræ ».
(3) Vedi in proposito la lettera XXXIII a M. Lodovico Rosso. Ediz. cit.
(4) Per volontà di Pio IV ai 28 Febbraio 1561.
(5) Let. LIV Pag. 191, ediz. cit.
(6) Verso la fine del 1529.
(7) Giunse Carlo V. a Correggio il giorno 23 Marzo 1530.
(8) Pag. 21 - Ediz. cit.
(9) Tornò Carlo V in Correggio il giorno 30 Gennaio 1533.
(10) Sul suo sepolcro fu posto il seguente bellissimo epitaffio composto da Rinaldo Corso:
Gambara sub tumulo iacet hoc Veronica Princeps
Corrigii, solo nomine nota satis.
Quam coluit quicunque Heros, quicunque Poeta
Quam cecinit, lapide hoc Gàmbara contegitur.
Gambara stirps, nomen Veronica, Brixia mater,
Musa Erato, Titulus Corrigium, et Tumulus.
Veronicæ Gambaræ bonorum omnium fortunæ corporis
atque animi cumulatissimæ mulieri
Hippolitus et Hieronymus
duo Corrigii principes filiique
moestissimi p. p.
Annum agenti LXV MDL idibus junii.
La Chiesa di S. Donato in Correggio, dove appunto era sepolta la
Gàmbara, fu distrutta dalle milizie Spagnuole nel 1556.
(11) Nel canto 35 stanza 4.a e nel Canto 44 stanza 70.a
(12) Questi versi si possono leggere nelle edizioni delle Opere della Gàmbara.
(13) Non istimo opera vana il riportare qui alcuni passi di scrittori che parlarono della Gàmbara:
[p. 38]
Laura Terracina nel Discorso sopra tutti li primi Canti d'Orlando
Furioso, Canto 37:
« Deh fosser molte al mondo come voi,
Donne, che agli scrittor mettono freno
Che a tutta briglia vergan contra noi
Scritti crudeli, e colmi di veleno,
Che forse andrebbe infino ai liti, Eoi
Il nome nostro, e'l grido d'onor pieno;
Ma perchè contro a lor nulla si mostra,
Però tengono vil la fama nostra. »
Lilio Gregorio Giraldi, nel Dialogo II. « De poetis nostrorum
temporum » alla pag. 417 del Tom II delle sue opere:
« Fuere pene non viris inferiores duæ illæ Principes et Pöetriæ,
Victoria Columnia Piscariæ, et Veronica Gàmbara Corrigiensis, quarum
utriusque pro sexus qualitate divina leguntur Poemata, quae
eo cupidius a plerisque leguntur, quo sunt ab illustribus Matronis
composita. »
Ciacconio. Tom. III. Vitæ S. R. E. Cardinalium col. 942:
« Hieronymus Austriacus Italus de Corrigio, filius Gilberti et
Veronicæ Gàmbaræ Uberti Cardinalis sororis, fœminæ primariæ,
cuius nomen bonarum litterarum cognitione, Italicorum carminum
et epistolarum scriptione illustre, ac morum sanctimonia illustrius,
apud Bembum, Casam, Molzam, et similes claros Pöetas sui temporis
commendatissimum extat; quamque Ioannes Matthæus Toscanus
una cum Victoria Columna laudavit his versibus, etc.
Giovanni Matteo Toscano nel libro IV. « Pepli Italiæ » pag. 490:
« Gàmbara Corrigium decorat, Victoria Romam,
Utraque sed sexus debilioris honos.
Quamlibet his priscam quis còmparet Heroinam,
Aut non docta, vel est illa pudica minus. »
(14) Tiraboschi - Storia della Lett. Ital. Tom. III. P. 3. 1183.
(15) Op. cit - Cfr. Tom. V. Pag. 269.
(16) Ginguenè - Storia della Lett.a Ital.a XI. pag. 441.
(17) Andres: Origine e progresso d'ogni Letteratura. Tom. III. Pag. 185. Cap. V. Eloq. epist.
(18) Storia della Lett.a Ital.a
[p. 39]
(19) Storia della Lett.a Ital.a
(20) Son. XXVII. « Guida con la man forte.………
(21) Francesco I e Carlo V.
(22) Son. VI. « Questo che ormai due mondi.………
Tale concetto appare nella maggior parte dei suoi sonetti indirizzati
a Carlo V.
(23) Le stanze che si trovano a Pag. 28 del Volume citato del Rizzardi, le quali versano sulla
caducità umana e sulla velocità del tempo, e cominciano: « Quando miro la terra ornata
e bella » furono anche attribuite a Vittoria Colonna. Anche Giosuè Carducci riporta le prime
cinque stanze dell'intero componimento, nelle sue « Letture Italiane » ad uso delle Scuole
Secondarie Inferiori (Bologna - Zanichelli) e afferma che quelle sono attribuite anche a Vittoria Colonna -
Parmi che tale dubbio debba svanire dinnanzi alla voce del Ruscelli, il quale ci asserisce con certezza e
con prove, (Raccolta di Rime di diversi eccellenti Autori Bresciani), che le dette ottave, già altre
volte stampate sotto il nome della Marchesana di Pescara, sono di Veronica Gàmbara - Fra le altre
prove il Ruscelli cita che il Cardinal Ridolfi gliele diè a copiare in Viterbo nell'anno 1537
dicendogli: « Togli se tu vuoi aver copia d'una bella cosa, queste stanze, che sono della sorella
di Mons. Reverendissimo di Gàmbara » Oltraccio altre circostanze adduce, per le quali
siamo indotti a escludere ogni dubbio sull'autrice delle bellissime ottave.
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Diversi componimenti in lode dell' opera
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