Tullia d' Aragona
Le rime di Tullia d'Aragona, cortigiana del secolo XVI
Edited by Enrico Celani
Bologna: Romagnoli Dall'Acqua, 1891
Introduction by Enrico Celani
[p. III]
Poichè la carità del natìo loco
mi strinse, raunai le fronde sparte…
(Dante, Inf. XIV).
Uno dei fatti più notevoli al principio del
decimosesto secolo è senza dubbio l'apparire
della cortigiana; figura degna di considerazione
e di esame non ebbe pur anco uno storico
che di lei si occupasse scrupolosamente e
gelosamente, e, diseppellendo dalle biblioteche
ed archivii i numerosi documenti che la riguardano,
dasse compiuta questa pagina di storia
che non è tra le ultime del nostro rinascimento.
Il nome di cortigiana si collega certamente
alla storia dell'umanesimo, ma quando, dove
e come ebbe principio? Tale quesito non ha
ancora risposta sicura. Arturo Graf
[III-1], che
[p. IV]
si occupò ultimo della questione con quell'
acume di critica ed abbondanza di erudizione
ben note, esita a dare giudizio decisivo,
attendendo pur lui che nuovi studî e documenti
traccino via più ampia e sicura per
definire tale punto.
Lo sviluppo della cortigiana prodotto
dalla rivoluzione sociale che si svolgeva nel
rinascimento, adattato al nuovo regime di vita
che rese allora meno dure e servili le leggi
sul costume, viene certamente a smentire
l'asserzione che il cinquecento fosse l'età più
feconda di turpi vizii, e l'amor patico, nato
nelle epoche di maggior coltura e diffuso su
larga scala nel medio evo, trova a combatterlo
questo sviluppo della cortigianeria e le
leggi civili di quasi tutti gli stati italiani,
mentre dal pergamo tuona aspra e minacciosa
la voce di S. Bernardino[IV-1]
e del
[p. V]
Savonarola[V-1]; l'Ariosto stesso che non ne fu
immune dichiara che nel 1518 il vizio si restringeva
a pochi umanisti. Ed allora si disputa
sulla teorica dell'amore che ha forti e
strenui campioni; dell'amore libero tra liberi
discorre Speron Speroni nel Dialogo d'amore
ove introduce a parlare la Tullia d'Aragona e
Bernardo Tasso, innamorati, e costretti a separarsi
dovendo quest'ultimo andare a Salerno;
dell'amor platonico, primi il Bembo e il Castiglione,
il Piccolomini poi, che lo definisce « un
desiderio di possedere con perfetta unione
l'animo bello della cosa amata[V-2]
» contrastando
all'amore che anela il solo possesso
del corpo. All' amore assolutamente libero,
per il quale era inutile insistere dopo il lavorìo
dell' Aretino, sono infirmate quasi tutte
[p. VI]
le liriche di cortigiane del cinquecento; rispecchiano
quelle l'ambiente nel quale furono
create, queste la cortigianeria nei luoghi
ove la coltura era più vasta e diffusa: dalla
corte pontificia a quella dei Medici, da Venezia
a Siena.
Il rinascimento, rotti gli argini che opponevansi
nel medio evo alla coltura della donna,
condusse a due estremi sostanzialmente diversi
che si disputarono il campo per quasi tutto il
secolo decimosesto: la coltura seria e positiva
da un lato, la licenza dall'altro: prodotta quest'
ultima da male intesa libertà, condusse poi
per inevitabile antitesi all'educazione claustrale.
Di tale antitesi tramandarono documenti il
Castiglione e il Garzoni; il primo, attribuendo
al Bembo la dichiarazione poetica dell'amore
e trasportando il lettore nella Corte di Urbino,
ove le lettere e le arti erano tradizione,
appalesa per bocca di Giuliano de' Medici, la
cui consorte Filiberta fu cantata modello di
femminili virtù, che « la coltura della donna
deve rassomigliare a quella dell'uomo, cui
ella è pari. Nei diversi rami della scienza e
dell' arte essa deve possedere la conoscenza
necessaria per parlarne con intelligenza e con
senno anche quando queste non sono professate.
La donna deve essere versata in letteratura,
aver conoscenza di belle arti, essere
esperta nella danza e nell' arte del vestire.
[p. VII]
saper evitare non meno ciò da cui si può
supporre vanità e leggerezza, che quanto palesa
mancanza di gusto. Il suo conversare,
serio e faceto, dev' essere adatto alla convenienza
de' casi, essa non deve mai parlare ad
alta voce e con iscostumatezza, nè con malizia
ed in modo da offendere, deve corrisponspondere
alla sua condizione con modestia e
con modi convenienti, a cui è obbligata, verso
quelli che costituiscono abitualmente la sua
compagnia. Nel suo presentarsi e nel contegno
sia aggraziata senz' affettazione. Le sue qualita
morali, l' onestà e le virtù domestiche
devono essere d' accordo con le intellettuali.
Debb' esser casta, ma cortese: arguta ma discreta;
ad ogni parola libera non dee fare un
volto troppo severo. Sappia governar la casa
e la sostanza e guidar l' educazione de' figliuoli.
Non tenti d'imitar l' uomo negli esercizi del
corpo, che a lui sono adatti ed a lui si richieggono.
In tutto il suo essere, nel portamento,
nell'andare e stare, nel parlare, mostri grazia,
dolcezza femminile e non rassomigli all'
uomo ». E questi ammaestramenti seguirono
donne d' illustre casata, quali Eleonora
d' Aragona, Isabella d' Este, Ippolita Sforza,
Elisabetta Gonzaga, e delle città ove l' elemento
borghese ottenne spesso la supremazia ed
il potere, resta il ricordo di Antonia Di
Pulci e Lorenza Tornabuoni.
[p. VIII]
L'ambiente elevato e colto nel quale visse la
cortigiana nel cinquecento non poteva non
influire su di essa e spingerla a gareggiare con
le donne oneste, spesso coltissime; troviamo
infatti in tutte le nostre storie letterarie,
vicino ai nomi di quelle due grandi che
furono Vittoria Colonna e Veronica Gambara,
due cortigiane: Veronica Franco e Tullia d'Aragona;
e se tra loro molto lungi per costumi,
non certo per meriti letterarii. Data questa
coltura nella donna onesta doveva alla cortigiana
richiedersi necessariamente di esserle
pari se non superiore, avere vivace ingegno,
voce bella e gradita, essere esperta nel suono
e nella danza, maestra insomma in tutte quelle
arti che, bramate o volute, erano poi, strano
a considerarsi, altamente biasimate da uomini
come l' Aretino e il Garzoni, che definiscono
tali doti atte solo a sedurre ed attrarre.
« Onde pensi che nascano i canti, i suoni, i
balli, i giuochi, le feste, le vegghie, i concerti,
i diporti loro, se non da quell' intento di aver
l' applauso, il commercio, il concorso della
turba infelice di questi amanti, che rapiti da
quelle voci angeliche e soprane, attratte da
quei suoni divini di arpicordi e lauti, impazziti
in quei moti e in quei giri loro tanto
attrattivi, consumati in quei giuochi sfarzevoli,
rilegrati in quelle feste giulive, addormentati
in quelle vegghie pellegrine, immersi
[p. IX]
in quei conviti di Venere, di Bacco, morti
nel mezzo di quei soavi diporti, restino prigioni
e servi del lor fallace ed insidioso
amore?[IX-1] » E dacchè siamo col Garzoni,
che lasciò della cortigianeria la migliore delle
testimonianze, non possiamo esimerci dal citare
un altro particolare degno di nota che
egli ci offre e riguarda il mezzano, che, dovendo
esser in tutto degno della cortigiana
che l' aveva prescelto, serve a gettare luce
in quell' ambiente triste e tuttora oscuro.
« Imita il grammatico nel scrivere le lettere
amorose tanto ben messe, e tanto ben
apuntate che rendono stupore, nel
dettar politamente, nel spiegar galantemente, nell'
esprimer secretamente il suo pensiero…
appare un poeta nel descrivere i casi acerbi
con pietà di parole, i fatti allegri con giubilo
di cuore… porta seco i sonetti del Petrarca,
le rime del Cieco d' Ascoli, l' Arcadia del
Sannazaro, i madrigali del Parabosco, il Furioso,
l' Amadigi, l' Anguillara, il Dolce, il
Tasso, e sopra tutto i strambotti d' Olimpo
da Sassoferrato, come più facili, sono i suoi
divoti per ogni occasione… Si reca dietro
qualche sonetto in seno, un madrigale in
[p. X]
mano, una sestina galante, una canzone polita,
con un verso sonoro, con uno stil grave, con
parlar fecondo, con tropi eleganti, con figure
eloquenti, con parole terse, con un dir limato,
che par che il Bembo, o il Caro, o il Veniero,
o il Gorellini l' abbiano fatto allora allora; e
si mostra alla diva con lettere d' oro, con
caratteri preziosi; si legge con dolcezza, si
pronunzia con soavità, si dichiara con modo,
si scopre l' intenzione, si manifesta il senso,
e si palesa il fine del poeta… Con la musica
diletta sovente le orecchie delle giovani, mollifica
l' animo d'ogni lascivia, ruina i costumi,
disperde l' onestà, infiamma l'alma di cocente
amore, incende i spiriti di concupiscenza carnale;
mentre si cantan lamenti, disperazioni,
frottole, stanze e terzetti, canzoni, villanelle,
barzellette, e si tocca la cetra, o il lauto, a
una battaglia amorosa, a una bergamasca
gentile, a una fiorentina garbata, a una gagliarda
polita, a una moresca graziosa, e
pian piano s'invita ai balli e alle danze, dove
i tatti vanno in volta, i baci si fanno avanti
le parole secrete…[X-1] ». Questo procuratore
di amore non è egli un tipo abbastanza curioso
e interessante?
La cortigiana apparisce in Roma alcuni
[p. XI]
anni prima del 1500[XI-1] e come tale è ufficialmente,
se così è lecito dire, riconosciuta
in documenti autentici della curia papale. In
un censimento[XI-2] compilato d' ordine della
[p. XII]
suprema autorità di Roma, redatto certamente
nel settennio corso dal 1511 al 1518, ove trovansi
numerate case, botteghe, proprietari ed
inquilini, e di tutti o quasi tutti si nota la
patria, condizione ed arte, le cortigiane sono
notate in numero esorbitante, spagnuole e veneziane
in massima parte, e distinte in cortesane
honeste, cortesane putane, cortesane da
candella, da lume, e de la minor sorte. Una
sola voita, e forse senza alcuna malizia, il
compilatore della statistica dimentica l'aridità
del suo lavoro e nota: « La casa di Leonardo
Bertini habita Madonna Smeralda cum 3 figlie
piacevoli cortegiane ».
Il tipo dell'elegante cortigiana, dell'Aspasia
del cinquecento, è l' Imperia, morta in Roma
nel 1511 a soli ventisei anni,
[XII-1] ricordata egualmente
[p. XIII]
con ardore da storici e romanzieri, amata
da Angelo del Bufalo e da Agostino Chigi il
[p. XIV]
famoso banchiere[XIV-1]: celebrata da poeti e letterati,
e presso la quale adunavasi il fiore
della romana aristocrazia e convenivano uomini
quali il Sadoleto, il Campani, il Colocci.
Ebbe per maestro Domenico Campana detto
Strascino. Di altre citansi le doti singolari:
« Lucrezia Porzia, dice l' Aretino, pare un
Tullio, e sa tutto il Petrarca e il Boccaccio
a memoria ed infiniti e bei versi di Virgilio,
d' Orazio e d' Ovidio e di molti altri autori[XIV-2] »: la Squarcina conosceva benissimo
il greco: la Nicolosa leggeva i salmi in
ebraico, e molte ancora che sarebbe ozioso
il ricordare.
Malgrado tutto ciò la cortigiana del cinquecento
era pur sempre quella del medio evo:
[p. XV]
tolta dall' ambiente che l' avvinceva, costringendola
a piegarsi al rinascimento classico, rimaneva
di essa la donna nella quale si alternavano
tutti quei bassi sentimenti che erano
diretta conseguenza della vita che conduceva.
Però qualche barlume di affetto vero, potente,
trovasi pur nella storia della cortigianeria: il
Molza ed il Bandello non erano alieni dal
credere che la cortigiana potesse veramente
amare: noi, più scettici, crediamo con riserva
a questo amore che poteva esser cagionato
da interessi troppo palesi e reali, dubitiamo
che la cortigiana avesse il cuore al di sopra
della ragione, mentre accettiamo senza dubbio
alcuno il fatto che nella prostituta di più
bassa specie si rinvenisse l' amore nelle più
forti sue manifestazioni. È questo un fatto che
si ripete continuamente anche ai nostri giorni,
e se discutibile dal lato psicologico, non cessa
per questo di essere men vero. Ricordasi l'Aragona
innamorata del Varchi e del Manelli:
Camilla pisana dello Strozzi; Marietta Mirtilla
del Brocardo, ed una certa Medea che in
morte di Ludovico dell' Armi veniva consolata
per lettera dall' Aretino; ma vogliamo
proprio credere sul serio all' amore ispirato
alla cortigiana da letterati? Questi erano allora
come adesso, e come forse disgraziatamente
lo saranno sempre, più ricchi d' ingegno,
di madrigali, di epistole che di quattrini.
[p. XVI]
esaltavano le cortigiane, dedicavano loro libri
e capitoli e col sacrificio dell' amor proprio
ricambiavano i favori lor concessi: Antonio
Brocardo scrisse un' orazione in lode loro, il
Muzio, il Tasso, il Varchi esaltarono l' Aragona:
il Molza, Beatrice spagnola: Michelangelo
Buonarroti, Faustina Mancina: Niccolò
Martelli l' onorata madonna Salterella; e le
cortigiane si abbarbicavano a questi letterati
perchè da essi dipendeva in massima parte la
rinomanza loro[XVI-1]. La Tullia d' Aragona è
quella che nelle sue rime lascia maggiormente
scorgere l'influenza dei letterati, sino a dubitare
che alcune di esse siano opera del Varchi
stesso, e dà in pari tempo la figura spiccata
della strisciante cortigianeria che avviluppava
anche allora i più minuscoli principi. L'antitesi
[p. XVII]
è in Veronica Franco, della quale daremo
in breve le rime, divenute di meravigliosa
rarità, desiderio ardente e inappagato di bibliofili
senza numero, orgoglio di alcuni pochissimi
più venturati[XVI-1]: essa è l' incarnazione
della donna libera del cinquecento ed è
l' unica che canti liberamente i suoi amori:
non s' informa a platonismo o castità irrisoria,
ama per amare e soddisfare i sensi, e i
suoi liberi amplessi, dice il buon P. Giovanni
degli Agostini « con tal' arte seppe dipingerli
e con tal frase adornarli che servono agl' incauti
di vigoroso solletico alla concupiscenza[XVII-2] ». Tale non può essere oggi il
parere di coloro che si occupano seriamente
della nostra letteratura: ogni pagina, bella o
brutta, sana o impura, che venga a chiarire la
nostra rinascenza, non è che contributo a lavoro
maggiore, e come tale spero vorrà essere
accolta questa mia debole fatica.
Della Tullia d' Aragona parecchi si occuparono
in questi ultimi tempi: forse ne parlerà
ancora il Bongi nel seguito de' suoi
Annali del Giolito de' Ferrari, editi dal Ministero
[p. XVIII]
della Pubblica Istruzione; certamente
poi il Biagi in altra edizione di un suo scritto
apparso nella Nuova Antologia del 1886; ma
stimo che la biogratia della poetessa poco
abbia più da offrire a così insistenti e dotti
ricercatori, perchè la sua vita è quasi tutta
delineata, e molto nettamente per l' epoca
nella quale visse e la vita nomade che ebbe
a condurre. In ogni modo augurando sempre
nuova luce, basta al mio assunto ritrarre in
poche linee la vita della Tullia, servendomi
anche di documenti finora non messi a profitto
dai due egregi scrittori.
Il Crescimbeni[XVIII-1], il Quadrio[xvIII-2], il
Mazzuchelli[xVIII-3], il Tafurri[xVIII-4], e ultimo ancora
Pietro Vigo[XVIII-5] credettero la Tullia napolitana;
lo Zilioli[XVIII-6] seguito dal
[p. XIX]
Canestrini[XIX-1] e dal Labruzzi[XIX-2] la dissero romana
a ciò confortati, prima che altre testimonianze
venissero a luce, dalle precise dichiarazioni
che Girolamo Muzio fa nell' egloga
Tirrenia a lei dedicata[XIX-3]. Infatti la
Tullia nacque in Roma da Giulia Campana
ferrarese[XIX-4] e dal cardinale Luigi
d' Aragona[XIX-5]. L' anno di sua nascita è ignoto:
[p. XX]
il Labruzzi e poi il Biagi[XX-1] considerando
che nel 1519 il padre di lei era già morto e
che nel 1527 ella era già nota nel mondo galante,
pongono la nascita circa il 1505, basando
anche tale congettura sulla novella VII
degli Ecatommiti di Giovanni Battista Giraldi.
Sta infatti che il Giraldi finge sia raccontata
la novella di Nana e Saulo nel 1527 al
tempo del sacco di Roma, ma vuolsi proprio
accettare quella data senza dubbio alcuno
[p. XXI]
e su di essa basare deduzioni storiche, quando
nella stessa opera rinvengonsi altri episodi che
forse non reggerebbero ad una severa critica
e sono falsati nelle date come quelli di Celio
Calcagnini e del Giovio? Non potrebbe il Giraldi
aver fatto risalire la partenza della Tullia
al 1527 per acconciarvi quella pur strana e
sudicia novella, scritta molti e molti anni dopo
il sacco di Roma e che vide la luce, se non
erriamo, solo nel 1565? A noi il Giraldi non
prova nulla; più fiduciosi in un passo dei
Ragionamenti dell'Aretino che rivelano come
l' anno 1519 la Giulia ferrarese partisse da
Roma per Siena con la sua picciola figliuola,
siamo stimolati a credere essere la Tullia
nata sullo scorcio del primo decennio del
decimosesto secolo.
Della giovinezza della nostra poetessa poche
notizie giunsero sino a noi; forse visse in
Firenze circa il 1517 e 1518[XXI-1], indi a Siena,
ove « imparò a parlare sanese » poi « vedendo
la madre che costei haveva di virtù principio
grande considerò che Roma è terra da donne,
e massime che ella sapea l' usanza della corte
[p. XXII]
e così l' ha fatta cortigiana[XXII-1] ». E questo
principio grande di virtù era infatti posseduto
dalla Tullia, alla quale gli agî procuratile
dal cardinale d'Aragona avevano permesso
di addestrarsi in tutte le arti della seduzione,
vivendo tra le delizie e le comodità d' una
onorata fortuna che l' amorevolezza del padre
le aveva lasciata tendendo agli studi nei
quali fece tanto profitto che non senza stupore
degli uomini dotti fu sentita in età ancor
fanciullesca disputare e scrivere nel latino e
nell' italiano cose degne di ogni maggior letterato,
onde arrivando al fine dell' età e accompagnando
alla sapienza e virtù sua un' isquisita
delicatezza di maniere e di costumi, si
acquistò il nome di compitissima sopra ogni
altra donna del tempo suo. Compariva con
tanta leggiadria in pubblico e con tanta venustà
ed affabilità d' aspetto che aggiungendovisi
la pompa e l' adornamento degli abiti
lascivi, pareva non potersi ritrovare cosa nè
più gentile nè più polita di lei. Toccava
gli strumenti musicali con dolcezza tale e maneggiava
la voce cantando così soavemente che
i primi professori degli esercizi ne restavano
meravigliati. Parlava con grazia ed eloquenza
rarissime, sì che o scherzando o trattando
davvero, allettava e rapiva a sè, come un'altra
[p. XXIII]
Cleopatra, gli animi degli ascoltanti e non
mancavano sul volto suo sempre vago e sempre
giocondo quelle grazie maggiori che in un
bel viso per lusingar gli occhi degli uomini
sensevoli sogliono essere desiderate[XXIII-1].
La Tullia tornata in Roma certamente
poco dopo la morte del padre vi rimase, secondo
ogni probabilità, e magari contro il
malevolo Giraldi, sino al 1531: e in questo
stesso anno si recò a Ferrara ove conobbe
Girolamo Muzio. L' autore degli Ecatommiti
dà alla partenza da Roma della Tullia, una
ragione abbastanza disonorevole. Egli narra,
come convenendo in casa dell' Aragona parecchi
giovani romani, uno di questi, che
chiama Saulo, invaghitosene al sommo, molto
[p. XXIV]
spendesse e si adoperasse perchè a lei nulla
venisse a mancare delle agiatezze nelle quali
era cresciuta. Dimorava nella stessa epoca in
Roma un tedesco, detto Gianni, uomo ricchissimo,
ma così sudicio e pieno di lordura che
faceva nausea a solo vederlo; costui innamorato
della Tullia, tanto insistette che ottenne
di essere compiaciuto di lei per una settimana
di seguito al prezzo di cento scudi per notte.
La Tullia acconsentì; non resse però che
una sola notte tanto era il puzzo che esalava
quel ricco tedesco. Risaputosi ciò da Saulo e
da' suoi amici, ne furono sdegnati, e mai più
vollero metter piede in casa dell'Aragona: talchè
ella vedendosi disprezzata e sfuggita, se
ne partì da Roma. Il Tiraboschi cita una satira
[p. XXV]
di Pasquino contro di lei[XXV-1], dalla quale
parrebbe che si fosse diretta a Bologna,
ma se veramente vi andasse, e certo dopo il
1531, non si conosce, come del pari rimase
sinora ignota la satira summentovata.
Che l' Aragona fosse in Roma nell' anno
suddetto è chiaramente provato da una lettera
che Francesco Vettori scriveva da Firenze
a Filippo Strozzi li 14 Febbraio 1531. Questi
chiamato in Roma da Clemente VII
sotto pretesto di rivedere alcuni conti, ma in
realtà per aiutarlo a introdurre in Firenze
« un governo o vogliamo chiamarlo stato, nel
quale i magistrati della città governino in nome
suo, in fatti il Duca governò in tutto,[XXV-2] »
scriveva al Vettori richiamandolo di aiuto e
consiglio: e questi rispondendo conchiudeva:
[p. XXVI]
« E perchè mi scrivete con la Tullia accanto,
non vorrei la leggessi similmente con essa
accanto, perchè amandola voi come femmina
che ha spirito, perchè per bellezza non lo
merita, non vorrei mi potesse nuocere con
qualcuno di quelli ch' io nomino. Io non sono
per ammonire Filippo Strozzi, ancorachè, se
le ammonizioni ricorregghino, non avete aver
per male essere ammonito, ma ho inteso di
non so che cartelli e di sfide andate a torno
che mi hanno dato fastidio pensando che un
par vostro, uomo di 43 anni, voglia combattere
per una femmina, e benchè io creda sareste
così atto all' arme come siete alle lettere
ed a ogni altra cosa dove ponete la fantasia,
non vorrei di presente vi metteste a questo
pericolo di voler combattere per causa tanto
leggiera; e vi ricordo che degli uomini come
voi ne nascono pochi per secolo; e questo
non dico per adulazione. Assettate le faccende
vostre e poi tornate a rivederci ». Pare che
il consiglio del Vettori riuscisse caro e salutare
allo Strozzi: in un cartello di sfida che
conservasi in un codice Rinucciniano, ed è di
quell' anno stesso in vano si cercherebbe il
suo nome tra i sei campioni della Tullia[XXVI-1].
[p. XXVII]
Partita da Roma, la Tullia si recò certamente
a Ferrara, ed ivi reduce di Francia
capitava poco dopo il Muzio; nel 1535 era a
[p. XXVIII]
Venezia ove nacque la sorella Penelope[XXVIII-1],
e nel 1537 nuovamente a Ferrara seguendo
di pochi giorni l' arrivo in questa città della
[p. XXIX]
marchesa di Pescara. Conobbe certamente allora
il sanese Bernardo Ochino che appunto
nella quaresima avea predicato ivi con mirabile
fervore, e gli diresse il sonetto XXXV
trattandolo poco cortesemente, e chiamandolo
arrogante, perchè avea dal pergamo fulminato
« le finte apparenze, e il ballo, e il suono »,
dono fatto da Dio agli uomini « ne la primiera
stanza ». Nello stesso anno le accadde
una strana avventura, narrata da un Apollo
novellista alla marchesa Isabella d' Este con
lettera dei 13 giugno[XXIX-1], e tale avventura
[p. XXX]
servì mirabilmente per porla in buona vista,
formarle quella reputazione di onestà che la
fama e le pasquinate avevano molto deteriorata,
radunarle intorno un' eletta schiera di
poeti e gentiluomini che adulandola, corteggiandola,
facessero dimenticare il suo passato
poco onorevole per riconoscere solo in lei la
poetessa, la letterata, la discendente di sangue
reale: e riuscì in massima parte; il Muzio e
il Bentivoglio le profusero lodi e adulazioni
in rima e in prosa, e la Tullia era posta al
di sopra di Vittoria Colonna. Ancora una volta
la cortigiana trionfava.
Da Ferrara la Tullia ritornò forse a Venezia;
almeno così il Dialogo dello Speroni
fa credere; poi a Siena ove si accasò nel
[p. XXXI]
1543[XXXI-1]. I documenti senesi che riguardano
la Tullia dànno a conoscere una circostanza
abbastanza seria per non essere lasciata senza
esame e cioè che ella era, legalmente almeno,
figlia di Costanzo Palmieri d' Aragona; ed infatti
nell' atto di matrimonio è detta Tullia
Palmeria de Aragonia, ed in altro documento
ancor più chiaramente « Filia quondam
Constantii de Palmeriis de Aragona ».
In base a tali documenti, eliminando del tutto
l' ipotesi che ella fosse stata adottata da un
Palmieri, conviene credere ad un matrimonio
della Giulia Ferrarese, al qua'e non possiamo
dare, neppure per approssimazione, una data
qualsiasi. L' Aretino, il Domenichi, il Franco
che citano la Giulia e ne parlano spesso diffusamente,
mentre dànno particolari su altri
amanti tacciono affatto di tale matrimonio;
neppure un barlume ne apparisce nelle rime
[p. XXXII]
della Tullia e nelle lettere che di lei ci
pervennero; parlando della propria famiglia
dice mia madre, mia sorella, ed io; tace il
Muzio, che, pur dando la paternità del cardinale
d' Aragona alla Tullia, nulla impediva
potesse parlarne nell'egloga dedicata alla Penelope
nata molti anni dopo; ne tacciono assolutamente
tutti i biografi. Ed apparisce del
pari per la prima volta, almeno così ci consta,
una casata Palmieri che abbia aggiunto il
nome d' Aragona al proprio; rimangono tracce
dei Piccolomini-Aragona, dei Tagliavia-Aragonia,
dei de Aragonia, romani, ma nessuna
dei Palmieri-Aragona. Questa casata non
viene poi più a luce nè sulla tomba della
Penelope che porta solo il nome di Aragona, nè
nel testamento della Tullia ove non sono
più mentovati nè padre, nè madre, nè marito.
Una volta ancora, innanzi all' arida autenticità
dei documenti, si oppone la tradizione, ferma,
costante; essa vuole la Tullia figlia del cardinale
d' Aragona e nel fatto nulla varrà a scemarla.
Su questo padre più o meno putativo,
che apparisce quasi per suà disgrazia, molte
sarebbero le supposizioni a farsi; era forse un
familiare del cardinale d' Aragona che acconsentì
a sposare la Giulia Campana a prezzo
d' oro, o qualche vanitoso che a scapito del
suo amor proprio con l' acquisto della Tullia
aggiunse al suo il casato degli Aragonesi?
[p. XXXIII]
in ogni modo è assolutamente da escludere
che quel de Aragonia stia lì per fissar il
luogo natio di quel buon Palmieri. Non ci
peritiamo rispondere a quesìti così ardui ed
anche inutili; bastano per noi tutte le testimonianze
dei contemporanei a stabilire che
la poetessa fu, pure illegittimamente, del sangue
d' Aragona.
Sembra che in Siena ella fosse perseguita
da malevoli che l' accusarono agli Esecutori
Generali di Gabella di vestire e portare ornamenti
vietati alle meretrici dagli statuti del
Comune; fu agitato per ciò un processo nel
febbraio del 1541, dal quale constando la vita
onesta e morigerata della Tullia, le fu permesso
di vestire ed abitare al pari di altre persone
nobili ed oneste[XXXIII-1]. Non cessò per
[p. XXXIV]
questo la malevolenza contro la Tullia e nell'
[p. XXXV]
agosto dello stesso anno[XXXV-1] fu ancora denunziata
per aver portato la sbernia il giorno
di Pasqua, e tra i denunziatori apparisce Ottaviano
[p. XXXVI]
Tondi, novesco, causa di torbidi in Siena
per avere ucciso uno di parte popolare[XXXVI-1],
e che la Tullia pianse morto un anno appresso
in un sonetto diretto al fratello Emilio[XXXVI-2].
Certo ella ignorava il servizio che il buon
novesco aveva tentato di renderle.
Sullo scorcio del 1545 la Tullia se ne
venne a Firenze ove contrasse stretta amicizia
col Varchi, col Martelli e parecchi altri, dei
quali ci rimasero testimonianze nelle rime e
nelle lettere di lui edite dal Biagi e dal Bongi[XXXVI-3].
E qui ancora doveva essere perseguitata dalle
severe leggi sui costumi e sugli ornamenti et
habiti degli huomini e delle donne. Il 19 ottobre
[p. XXXVII]
1546 il Duca Cosimo promulgava una di
quelle leggi[XXXVII-1], ma la Tullia che credeva
oramai per la fama di poetessa di non essere
più compresa nel ruolo delle cortigiane, non
se ne diè per intesa, sin che nell' aprile dell'
anno appresso fu invitata dal Magistrato ad
ottemperare alla legge mettendo sul vestito
qual cosa di giallo che doveva servire a distinguerla
dalle oneste gentildonne. La Tullia
ricorse a D. Pietro di Toledo nipote della duchessa
Eleonora, che la consigliò presentare
alla Duchessa una supplica unita ai sonetti a
lei scritti da illustri letterati, a significare
[p. XXXVIII]
l' errore del magistrato di giustizia nell'annoverarla
tra le cortigiane. Per correggere la
supplica, se non per averla bell' e fatta ricorse
la Tullia al Varchi[XXXVIII-1], ed il dabben uomo
volentieri si prestò a tanto urgente favore, e
della Tullia non è forse nel seguente documento
che il nome solamente.
« Ill.ma ed Ecc.ma Sig.ra Duchessa.
« Tullia Aragona, umilissima servitrice di
V. E. Ill.ma, essendo rifugiata a Firenze per
l' ultima mutazione di Siena, e non facendo i
portamenti che l'altre fanno anzi non uscendo
quasi mai da una camera non che di casa,
per trovarsi male disposta così dell' animo
come del corpo, prega V. E. affine che non
sia costretta a partirsi, che si degni d' impretrare
tanto di grazia dall' Eccell.mo ed Ill.mo
S.or Duca suo consorte, che ella possa se non
servirsi di quei pochi panni che le sono rimasi
per suo uso, come supplica nel suo capitolo,
almeno che non sia tenuta all' osservanza del
velo giallo. Ed ella, ponendo questo con gli
altri obblighi molti e grandissimi che ha con
S. E., pregherà Dio che la conservi sana e
felice ».
[p. XXXIX]
La cortigiana ottenne favore presso la duchessa;
Cosimo scrisse di suo pugno sull'istanza
« Fasseli gratia per poetessa »; e queste parole
sono autenticate dalla soscrizione di Lelio
Torelli, ministro del granduca. I luogotenenti
del duca rilasciarono quindi all' Aragona, in
data 1 maggio 1547, copia della deliberazione
nella quale riconoscendo « la rara scientia di
poesia e filosofia che si ritrova con piacere
di pregiati ingegni la detta Tullia Aragona
venga fatta esente da tutto quello a che ell' è
obbligata quanto al suo abito, vestire e
portamento[XXXIX-1] ». Un anno appresso, e precisamente
nell'ottobre, scriveva al Varchi annunziandogli
la sua partenza, gli mandava in dono
un paio di colombi, due fiaschi d' acqua ed
uno di malvagia, una saliera di alabastro,
e da lui toglieva commiato per sempre con
lettera che il Varchi avrà certamente preso
per buona moneta; partiva quindi per Roma,
dove il primo di febbraio del 1547 veniva a
morte la sorella Penelope, seguita poco appresso
dalla madre. La Tullia abitava in Campo
Marzio nel palazzo Carpi, e nel libro della
Tassa fatta alle cortigiane per la reparatione
[p. XL]
del ponte (Rotto)[XL-1] consta che ella
pagava di pigione 40 scudi (in ragione tassata
per scudi quattro) ed è una delle cortigiane
che pagava di più; poche giungono ai cinquanta
scudi, rare quelle che superano tal somma:
evidentemente le condizioni finanziarie della
Tullia non erano troppo rilassate, e non crediamo,
come dubita il Bongi, che il poco profitto
da lei ritratto in Firenze ed il desiderio
di far esordire la Penelope nella più vasta e
ricca scena di Roma fosse causa della sua dipartita
di colà; nulla accenna pertanto avere
la Penelope esordito nella triste carriera, anzi
l' essere ella morta non ancora quattordicenne
fa credere, magari con un poco d' ottimismo,
che il desiderio della Giulia Campana forse
più che della Tullia, se esistito, non rimase
che semplice desiderio.
La Tullia visse certamente in Roma sino
all' epoca di sua morte, che avvenne il 12 o
13 marzo del 1556. Era andata ad abitare nel
rione Trastevere, in casa dell' oste Matteo
Moretti da Parma, ed ivi il 2 marzo dello
stesso anno dettava le sue ultime volontà al
[p. XLI]
notaio Virgilio Grandinelli[XLI-1]. Morta la Tullia
ed apertone il testamento alli 14 di marzo,
Pietro Ciocca in suo nome e per gli esecutori
testamentari mons. Antonio Trivulzio vescovo
di Tolone e Mario Frangipane, chiese all'auditore
della Camera Apostolica un tutore per il
giovinetto Celio. Tale ufficio fu conferito a
[p. XLII]
D. Orazio Marchiani chierico pistoiese. Redatto
l'inventario della roba lasciata dalla Tullia si
procedè alla vendita secondo le sue volontà;
gli ori e le gioie furono acquistati dagli orafi
Pompeo Fanetti a Santa Lucia della Chiavica,
Maurizio Grana piemontese e Francesco Alarçon
spagnolo al Pellegrino; la mobilia da Giovanni
[p. XLIII]
Battista della Valle fiorentino e Francino Francini
d' Arezzo rigattiere a Monte Giordano. A
quest' ultimo toccò in un con gli arnesi di cucina
« una cassa vecchia nella quale c' erano
trentacinque libri tra volgari e latini di più et
diverse sorte, et tredici di musica tra usati,
vecci, et stracciati et diverse altre carte et libri
[p. XLIV]
già stracciati ». Ai singoli legati fu adempiuto
con rogiti speciali; in uno di questi Celio
non solo herede della Tullia ma figliuolo è
chiamato. Di questo Celio e del Marchiani
nessuna notizia giunse sino a noi; forse lasciarono
Roma, ed il tutore, pistoiese, riedendo
alla nativa città, avrà menato seco il fanciullo;
[p. XLV]
è certo che di essi perdesi la traccia dopo la
morte della Tullia, nè le carte dell' archivio
romano, esaminate dal cav. Corvisieri, ci possono
dire quale sia stata la sorte del fanciullo.
Che il padre fosse lo stesso Ciocca come altri
supposero, non crediamo, parendoci allora superflua
la nomina di un tutore, e dovendo in
tal caso ammettere che il Celio fosse nato in
Roma dopo il 1547, cosa molto improbabile e
per le condizioni fisiche della Tullia e per
l' appellativo di giovinetto che viene dato al
Celio, come ancora non lo supponiamo figliuolo
del Guicciardi. L' Aragona conobbe
forse il Ciocca in Venezia, essendo questo al
servizio del Cornaro, ma a tale epoca non
può risalire la nascita di Celio; dubitiamo
anzi, sempre però su deduzioni, che la nascita
di questo fanciullo fosse causa della dipartita
dell' Aragona da Firenze.
La Tullia era di alta statura, non bella
ma piacevole[XLV-1], gli occhi bellissimi e splendidissimi,
e « nei movimenti loro una certa
[p. XLVI]
forza vivace che parea gittassero fuoco negli
altrui cuori », forza provata dal Muzio che
cantava:
….. occhi belli,
occhi leggiadri, occhi amorosi e cari,
più che le stelle belli e più che il sole,
i capelli finissimi di un biondo oro, esaltati
spesso da' suoi ammiratori, tra i quali il cardinale
lppolito de' Medici, al quale la porpora
non impediva di bruciare innanzi alla bella
Aragonese il suo granello d'incenso cantando:
se 'l dolce folgorar de i bei crini d' oro,
e 'l fiammeggiar de i begli occhi lucenti,
e 'l far dolce acquetar per l' aria i venti
co 'l riso, ond' io m' incendio e mi scoloro…
Nella pinacoteca Tosio di Brescia è conservato
il ritratto della poetessa dipinto da Alessandro
Bonvicino detto il Moretto, altri due veggonsi
nell' edizione delle Rime fatta dal Bolifon e
nel vol. XII del Parnaso italiano. Di questi
ultimi quale sia il valore non possiamo certo
dire.
Tra i molti adoratori che ebbe a vantare
la Tullia, Girolamo Muzio fu certo uno dei
più costanti e veritieri, e benchè quando fu
preso d'amore avesse oltrepassati i quarant'anni,
si sente dalle sue rime che quell' affetto era
[p. XLVII]
serio e sincero, e che i versi esprimevano
molto meno di quel che il cuore sentiva;
dedica alla Tullia le sue egloghe Amorose che
in realtà parlano assolutamente di lei sola, e
del suo amore non cela nè gli ardenti desideri
nè le bramate conquiste. Con un verismo
poco desiato certo da qualsiasi donna, anche
abituata alla rilassatezza della vita di
Ferrara, egli diceva alla Tullia:
Vien, Ninfa bella, e fra le molli braccia
raccogli quel che con le braccia aperte,
disioso t' aspetta, e nel tuo grembo
ricevi lieta l' infocato amante;
stringi e 'l bramoso amante, e strette aggiungi
le labbra a le sue labbra, e 'l vivo spirto
suggi de l' alma amata, e del tuo spirto
il vivo fiore ispira a le sue brame.
Le belle membra tue, morbide e bianche,
ad Amor le consacra; ed al tuo amante,
qual vite ad olmo avviticchiata e stretta,
con lui cogli d' amore i dolci frutti.
Ma ben presto il Muzio recatosi a Milano
in missione per il Duca Ercole d' Este, fu
obliato, almeno per del tempo, e sostituito
dal Bentivoglio; passata poi la Tullia da
Ferrara a Venezia, Bernardo Tasso prese il
posto dei precedenti, almeno così ci lascia
credere lo Speroni che nel suo Dialogo la
introduce « a far l'amore con lui, presenti ed
[p. XLVIII]
accettanti Nicolò Grazia e un altro spasimante
Francesco Maria Molza »; indi a Firenze variò
tra il Varchi, lppolito de' Medici, il Tolomei,
il Fracastoro, il Martelli, il Lasca, il Mannelli
e lo Strozzi.
Vario e non sempre imparziale fu il giudizio
dei contemporanei e dei posteri verso
l' Aragona; aspro e satirico spesso sino a
dare diritto di vilipenderla all' Aretino[XLVIII-1] e
al Razzi [XLVIII-2]; buono e cortese ancora, come
[p. XLIX]
le testimonianze del Nardi e del Muzio. Il
Nardi, tradotta in lingua toscana un' orazione
di M. T. Cicerone (Venezia 1536) ne indirizzava
un esemplare a Gian Francesco della
Stufa con incarico di presentarlo alla Tullia
che per sè stessa oggi dirittamente da ogni
uomo è giudicata unica e vera erede così
del nome e di tutta la tulliana eloquenza;
Girolamo Muzio che si consolò del matrimonio
della Tullia sposando circa il 1550 una
damigella d' onore di Vittoria Farnese duchessa
d' Urbino, nella lettera dedicatoria premessa
al Trattato del matrimonio, scriveva:
Già avviso di vedere in voi quella donna
la grazia della cui vergogna, come si legge
nell' Ecclesiastico[XLIX-1], è più che oro preciosa …
[p. L]
Tale avviso che dovete esser voi facendo
in tal guisa al mondo manifesto che
della vostra passata vita ne è stata cagione
necessità, et di questa la vostra libera
volontà: che nel passato vi ha trasportato
fortuna e che hor vi governa la vostra
virtù.
Frutto d'amore, ella visse sacra all'amore
e nulla varrebbe a scusarla della poca onestà
della sua vita; ma se è pur vero che gli abbietti
trionfando della loro caduta trovano i
buoni che li ricoprono, concediamo a lei le
attenuanti dell' esempio: e di esempio ne ebbe
a sufficienza, e per l'ambiente viziato nel quale
nacque e visse, e nella stessa madre che allegramente
dava alla luce figliuoli sino al 1535
e con la massima indifferenza li intitolava
d' Aragona dopo sedici anni che il povero
cardinale era andato all' altro mondo.
Tenuto conto delle condizioni in cui svolgevasi
la poesia nel XVI secolo, le rime dell'Aragona
non mancano certo di pregio; quantunque
ancor essa che « volle avere il suo
canzoniere[L-1] » non eviti quella freddezza
[p. LI]
che nasce da ogni ripetizione, quella noia che
s'ingenera dalla descrizione di una passione
misurata su i precetti rettorici e smentita dal
fatto e dai costumi. La Tullia fu petrarchista
della miglior acqua, e non poteva certo essere
altrimenti; il Petrarca era l' idolo al quale si
prostesero quasi tutti i rimatori del cinquecento
ed il modello su cui si formarono, ricavando
stima maggiore chi imitasse più servilmente
il cantore di Laura, rubandone al tempo
stesso il pensiero e la forma. Tutte le cortigiane
letterate del cinquecento furono petrarchiste,
se per altri il Petrarca era l' oracolo
del purismo, per esse non rappresentava che
la teorica dell' amore; quest' amore ideale o
platonico, di Venere celeste, era cantato su
tutti i toni, salvo poi ad avere, di altro amore,
una più ampia e sicura conoscenza, e tale influenza,
per donne quali l'Aragona, la Franco,
la Stampa è spiegata dalla stessa relazione del
petrarchismo con la cortigianeria. Un Petrarchino
di piccolo formato, di edizione elegante
era indispensabile al cortigiano effeminato e
strisciante, i leggiadri cavalieri di Roma mostravansi
per via « andando soavi soavi co' loro
famigli a la staffa, su la quale tenevano solamente
la punta del piede, col Petrarchino in
[p. LII]
mano, cantando con vezzi[LII-1] », ed i vagheggini
più aridi e stucchevoli, appena ricevuto
un sorriso della donna amata correvano « a
casa a comporre una sestina, un madrigaletto,
dove il cieco d' Adria non s' accorge che la
mariuola gli ha furfato in versi, senza essere
discoverta da nessuno ». Dell'amore teoretico
il Petrarca era il gran maestro per pratica e
per scienza; il suo canzoniere si allontana da
quell' amore pratico del cinquecento che si
svolge in brutale sensualità, e in una brama
di appetiti animali trascinarono la società nella
più completa dissolutezza, nelle forme più
sozze delle aberrazioni e del vizio; esso risponde
all' amore intellettuale, richiesto dall'
umanesimo, che veniva considerato quale
anello di congiunzione con l' amore divino, e
della cui infinità tratta l' Aragona in un suo
dialogo [LII-2].
Al contrario della Franco che canta
l' amore dei sensi, l' Aragona è tutto ideale,
tutto spiritualismo; i suoi affetti vogliono rasentare
il cielo, e solo raramente trovasi qualche
[p. LIII]
accenno alla triste sua vita; è invasa dalla
manìa di passare ai posteri insieme ai letterati
che ella canta, cerca ogni maniera di ricoprire la
cortigiana con la poetessa, ed eleva
i suoi canti indistintamente a tutti, principi e
cardinali, letterati e soldati, uomini serii e
burloni quali il Lasca; per lei l'uomo, essere
animato, è nulla: la fama di un uomo, il tutto;
il solo affetto per il giovane Mannelli si può
credere sincero, tutte le altre proteste che infiorano
le rime e quei sonetti che cambiato
indirizzo, giravano d' adoratore
in adoratore in edizioni stereotipe e consolavano tanto il
Muzio che il Martelli[LIII-1], fanno a buon diritto
dubitare di tutte queste espansioni cantate
così altamente e serenamente. E la manìa dell'
Aragona è anche spiegabile in altro senso.
Cessate le seduzioni della bellezza tentava con
l' arte di riunire la compagine di quegli adoratori
che si venivano allontanando, e con la
musica, il canto, le lettere cercare di sostenere
i bisogni della casa: le sue rime sono
spesso forzate. e la eco dell' onda classica da
Orazio a Virgilio, da Dante a Petrarca viene
spesso ad alimentare l' agonia di una vita
finita.
[p. LIV]
Delle imitazioni al Petrarca, evidentissime
e nel pensiero e nello stile, ne citeremo
solo alcune poche a titolo di saggio[LIV-1].
Sonetto X, v. 12-15:
E se quassù giungesser gli occhi vostri,
vedendo fatto me novo angeletto
qui bramareste, e non vedermi in terra.
(PETRARCA, Madrigale III, v. 1-2).
Sonetto XXXI, v. 7-9:
E l' alto Iddio lodar ben spesso suole,
dopo l' aspra fortuna,
spaventato nocchiero al porto intorno.
(PETRARCA, Sonetto C, v. 1-2).
Sonetto XXXVIII, v. 12-14:
Non contenda rea sorte il bel desio,
che pria che l' alma del corporeo velo
si scioglia, sazierò forse mia brama.
(PETRARCA, Sonetto IX, v. 12-14).
[p. LV]
Sonetto XLII.
S' io 'l feci unqua, che mai non giunga a riva
l' interno duol, che il cuor lasso sostiene;
s' io 'l feci, che perduta ogni mia spene,
in guerra eterna di vostr' occhi vi va.
(PETRARCA, Canzone XV)
Sonetto XLIV, v 13-14:
… volgendo a Roma 'l viso e a lei le spalle,
se vuol l' alma trovar col corpo unita.
(PETRARCA, Sonetto LXXXI, v. 3-4).
Sonetto LI, v. 12-14:
Benchè vostro valor eterna fama
per sè vi acquisti, caro mio signore,
quanto 'l sole gira e Battro abbraccia e Tile.
(PETRARCA, Sonetto XCVI, v. 9-11).
Della Tullia giunsero a noi un Dialogo
dell' infinità di amore[LV-1], giudicato « uno
dei dialoghi più vivi che noi abbiamo, nell'
ordine più basso degli scritti letterari del
secolo decimosesto….. per una certa franchezza
[p. LVI]
e disinvoltura, e anche talvolta per
una certa saporita fiorentinità ch' ella attinse
per avventura dal suo consorzio coi fiorentini
e singolarmente col Varchi », ed un poema in
ottava rima: il Meschino e il Guerino[LVI-1].
Il Crescimbeni fa di questo poema elogi sperticati,
dicendo che « nella tessitura può paragonarsi
all'Odissea di Omero[LVI-2] », esso però
è così inverosimile e contrario tanto alla storia,
alla cronologia, alla geografia, e con buona
pace dell' ottimo abate, anche al buon senso,
che non sappiamo invero trovarvi alcuna analogia
con l' opera dell' Omero; lo stile ne è
trascurato, e spesso conviene lavorare di serio
proposito per raccapezzare il senso di qualche
ottava, i canti, trentasei in tutto, appaiono
disordinati e spesso senza nesso tra loro. La
Tullia avverte che trasse il poema da un vecchio
romanzo spagnuolo in prosa, ma certamente
ella si servì di una traduzione e non
del testo originale che vuolsi scritto in italiano[LVI-3].
L'Aragona nella prefazione di questo
[p. LVII]
poema si scaglia contro il Boccaccio, e mentre
lo compassiona perchè non seppe eleggere il
verso a forma del Decamerone, lo accusa che
tante sue scellerate novelle scritte con altrettante
scellerate parole, servendo solo a demoralizzare
e rendere ridicoli i più santi vincoli
dclla società, siano impossibili a leggersi, senza
frutti nocivi, da maritate e nubili, vedove e
monache, e persino cortigiane. Questi scrupoli
che parrebbero curiosi nella Tullia, sono da
ella medesima spiegati, non essendo cosa nuova
che ad una donna per necessità o per altra
mala ventura sua sia avvenuto di cadere in
errore del corpo suo e tuttavia si disconvenga
non men forse a lei che alle altre l'essere disoneste
e sconcie nel parlare e nelle altre cose;
ed ella, contrariamente al Boccaccio, vuole
scrivere per tutti, il suo poema potrà essere
dato in mano alla più pudica donzella senza
alcun pericolo, volendo con esso porre un debole
argine a quell' invadente corruttela che
ogni dì spandeasi con maggior forza e brutalità,
e pur sempre per opera dei letterati ed anche
degli umanisti. L' idea della Tullia, se togliesi
quella sfuriata contro l' umanismo che proprio
[p. LVIII]
non aveva a che fare, non era cattiva e
sinceramente credette averla attuata col suo
Guerino; dichiarandosi di tutto debitrice a
Dio solo « dal quale solo viene ogni bene e
da cui solo io riconosco questa gran grazia
d' avermi in questa mia età non ancor soverchiamente
matura, ma giovenile e fresca, dato
lume di ridurmi col cuore a lui e di desiderare
e operare quanto posso che il medesimo
facciano tutti gli altri così uomini e donne ».
Ma Dio non aveva proprio nulla a che vedere
col Guerino, ed è proprio il caso di ripetere
che quantunque il diavolo si vesta da frate,
quattro dita di coda gli spuntano sempre sotto
la tonaca; infatti ciò che la Tullia narra del
cavaliere di Durazzo, di Brandisio e della figlia
dell' albergatore nel canto VIII[LVIII-1], e di Pacifero
[p. LIX]
innamorato di Guerino nel canto X[LIX-1]
E poi la sera volse ch' egli andasse
….. abbraccia al Meschin suo la gola
,
non è roba atta a far mettere il poema vicino
al libro di devozione di una vergine o dl una
monaca. E pur tale era lo scopo.
In produzioni di uno stesso autore, apparse
anche a distanza di molti anni l' una
dall' altra, ritrovasi sempre qualche analogia,
qualche difetto, alcun che di speciale, quasi
direbbesi di proprio, che le riavvicina e riunisce;
nulla di ciò tra il Guerino e le Rime,
anzi una succinta critica forse allontanerebbe
molto l' uno dalle altre. Quantunque non sia
il caso ora di formare tale confronto ed esaminare
a fondo il Guerino, non possiamo
[p. LX]
esimerci dal notare come la prefazione posta
innanzi al poema ci abbia fatto triste impressione,
fino a crederla apocrifa per ragioni che
crediamo buone od almeno meritevoli di
esame. Il Ranieri che pubblicò il poema nel
1560 dicendo di averne curato l' edizione sul
manoscritto originale già da parecchi anni
da lui posseduto, non fa parola dell' Aragona
che era morta nel 1556, e si profonde solo in
ampie ed ampollose proteste cercando di formare
una dedica alla quale, per essere di
qualche valore, manca solo un poco di senso
comune. E quel parecchi, posto lì per indicare
un lasso di tempo non superiore ai tre
[p. LXI]
anni è per lo meno superfluo; nè più lungo
spazio di tempo crederemmo possibile ammettere
perchè è abbastanza ragionevole il supporre
che l' Aragona avesse sino alla morte conservato
presso di sè quel lavoro. Il ricordo ancora
che i libri e le carte andarono in mano
di un modesto rigattiere, non è privo di valore;
se il manoscritto del Guerino era tra la roba
acquistata da Francino Francini, uomo probabilmente
ignorante e privo di criterio letterario,
la sorte del manoscritto era assicurata:
finiva in qualche bottega di droghiere o salumaio.
Converrebbe adunque credere che o il
manoscritto fosse tra le carte devolute a Celio
figliuolo dell' Aragona o che la Tullia ne
avesse fatto un dono al Ranieri qualche anno
prima; ma ancora queste due supposizioni
rasentano l' assurdo. Il testamento della
Tullia che pure è tanto minuzioso e preciso
nei lasciti e legati, non accenna a carte ed
altri documenti spettanti al Celio; nè la Tullia
poteva donare il manoscritto al Ranieri o ad
altri che a lui lo passassero, perchè dal momento
che ne aveva condotto a termine anche
la prefazione, era certo desiderio suo di
darlo alle stampe, e per il nome che godeva
e l'appoggio dei letterati che facevanle corona
non sarebbe stato difficile trovare un tipografo
che ne assumesse l' edizione. Se dobbiamo
pur credere alla dichiarazione della Tullia di
[p. LXII]
avere composto il poema « in età ancor giovenile
e fresca », quando erasi decisa di darsi
a Dio, conviene di necessità ammettere che
ella l'avesse scritto in Siena poco appresso il
suo matrimonio col Guicciardi, o in Firenze;
mai in Roma ove tornando per l'ultima volta
nel 1547 non era più in età giovenile
e fresca, e l' essere ascritta nel ruolo delle cortigiane
pubbliche non era il migliore indizio dell' essersi
data a Dio. Anche a questa ipotesi si
oppone una seria obbiezione. Era possibile all'
Aragona dare ad intendere agli eruditi, massime
fiorentini, di aver tratto il Guerino da
un romanzo in prosa spagnuolo? Pure ciò
afferma nella prefazione, e se il poema non
corrisponde esattamente al Guerino, in prosa,
romanzo cavalleresco del ciclo della Tavola
Rotonda, è indiscutibile che da questo ne
trasse in massima parte le idee. Nessuno
ignora la rinomanza che il Guerino ebbe
nei secoli XV e XVI; all'epoca dell'Aragona
ne erano già state fatte sei edizioni[LXII-1], ed
[p. LXIII]
è certo sopra una di queste che fu condotta
la riduzione in rima. In conclusione non rifiutiamo
al Guerino la maternità dell' Aragona,
la sua differenza con le Rime non è prova
sufficiente a porre dei dubbi; respingiamo
però assolutamente quella prefazione che non
è, nè poteva essere della Tullia.
Per la ristampa delle rime abbiamo usato
l' edizione prima, Venezia 1547 (A) servendoci
per le varianti delle edizioni di Venezia, 1549,
(B): ivi, 1560 (C): Napoli, 1593 (D): e delle Rime
raccolte dalla Bergalli-Gozzi (E): le abbiamo
fedelmente riprodotte, salvo allorchè gli errori
erano evidenti, respingendo allora in nota la
lezione originale; quando le varianti assumevano
importanza assoluta, come per i componimenti
tratti dai codici vaticano e magliabecchiano,
abbiamo stimato necessario riprodurre
entrambe le lezioni avvertendo di collocarle
l' una a lato dell' altra.
Dalla R. Biblioteca Vallicelliana,
maggio 1891.
ENRICO CELANI
Notes
III-1. Graf. A. Attraverso il cinquecento. Torino, Loescher, 1888, pag. 215 e seg. -- Nell' Hermaphroditus del Panormitano (1471) (Quinque illustrium poetarum, Antonii Panormitani, etc. lusus in Venerem, Parigi, 1791), la cortigiana non apparisce ancora, come neppure ne è parola in Giano Pannonio (1472) Poemata. Trajecti ad Rhenum, 1784.
IV-1. « Avetemi inteso voi donne? Che alla barba di tutti i sodomiti io voglio tenere colle donne, e dico che la donna è più pulita e preziosa della carne sua che non è l'uomo; e dico, che se egli tiene il contrario, egli mente per la gola » (S. Bernardino, Prediche volgari, ed. Bongi, pag. 380).
V-1. Le opere fatte da lui circa la osservanza dei buoni costumi furono santissime e mirabili, nè mai in Firenze fu tanta bontà e religione quanta a tempo suo … la sodomia era spenta e mortificata assai; le donne in gran parte lasciati gli abiti disonesti e lascivi; i fanciulli quasi tutti lavati da molte disonestà e ridutti ad uno vivere santo e costumato … portavano i capelli corti e perseguitavano con sassi e villanie gli uomini disonesti e giocatori e le donne di abiti troppo lascivi. (Guicciardini, Storia fiorentina, cap. XVII).
V-2. Piccolomini A. Istituzione di tutta la vita dell' uomo nato nobile et in città libera. Venezia, 1552.
IX-1. Garzoni T. La piazza universale di tutte le professioni del mondo. Venezia, 1587, discorso LXXIV, pag. 597.
X-1. Garzoni T. Op. cit., discorso LXXV, pag. 605.
XI-1. Giovanni Burchkardt maestro di cerimonie di Alessandro VI narra come l'ultimo d' ottobre 1501 cenarono nel palazzo apostolico, col Valentino, cinquanta cortigiane, le quali dopo cena danzarono ignude e diedero altre prove di valentia in presenza di Alessandro VI e della Lucrezia Borgia. « In sero fecerunt cenam cum duce Valentinense in camera sua, in palatio apostolico, quinquaginta meretrices honeste cortegiane nuncupate, que post cenam coreaverunt cum servitoribus et aliis ibidem existentibus, primo in vestibus suis, denique nude. Post cenam posita fuerunt candelabra communia mense in candelis ardentibus per terram, et projecte ante candelabra per terram castanee quas meretrices ipse super manibus et pedibus; unde, candelabra pertranseuntes, colligebant, Papa, duce et D. Lucretia sorore sua presentibus et aspicientibus. Tandem exposita dona ultima, diploides de serico, paria caligarum, bireta, et alia pro illis qui pluries dictas meretrices carnaliter agnoscerent; que fuerunt ibidem in aula publice carnaliter tractate arbitrio praesentium, dona distributa victoribus ». Diarium sive rerum urbanarum commentarii, Parisiis, 1883-1885, tom. II, pag. 443, tom. III, pag. 167).
XI-2. Armellini M. Un censimento della città di Roma sotto il pontificato di Leone X tratto da un codice inedito dell' Archivio Vaticano. Roma, Befani, 1887.
XII-1. Cfr. Bandello, Novelle, parte III, nov. XLII; Valery, Curiosités et anecdotes italiennes, Paris, 1842; Giovio P., De piscibus romanis, cap. V; Forcella V., Iscrizioni delle chiese di Roma, Roma, 1878. Per l' epitafio che dicesi posto sulla sua tomba crediamo siasi troppo facilmente accettata la tradizione che fosse in S. Gregorio; oltre la stranezza della lapide che certo non faceva bella figura in una chiesa, è oramai accertato che se pure l' epitafio fu composto non fu mai elevato sulla tomba dell' Imperia.
Di lei scrive il Bandello (op. cit., nov. XLIII): « Tra gli altri che quella (Imperia) sommamente amarono fu il signor Angelo del Bufalo, nomo della persona valente, umano, gentile e ricchissimo. Egli molti anni in suo poter la tenne, e fu da lei ferventissimamente amato, come la fine di lei dimostrò. E perciò che egli è molto liberale e cortese, tenne quella in una casa onoratissimamente apparata con molti servidori, uomini e donne, che al servizio di quella continovamente attendevano. Era la casa apparata e in modo del tutto provvista, che qualunque straniero in quella entrava, veduto l' apparato ed ordine de' servidori, credeva che ivi una principessa abitasse. Era tra l' altre cose una sala e una camera sì pomposamente adornate, che altro non v' era che velluti e broccati, e per terra finissimi tappeti. Nel camerino, ov' ella si riduceva, quand' era da qualche gran personaggio visitata, erano i paramenti che le mura coprivano, tutti di drappi d' oro, riccio sovra riccio, con molti belli e vaghi colori. Eravi poi una cornice tutta messa a oro ed azzurro oltremarino, maestrevolmente fatto, sovra la quale erano bellissimi vasi di varie e preziose materie formati, con pietre alabastrine, di porfido, di serpentino e mille altre specie. Vedevansi poi attorno molti cofani e forzieri riccamente intagliati, e tali che tutti erano di grandissimo prezzo. Si vedeva poi nel mezzo un tavolino, il più bello del mondo, coverto di velluto verde. Quivi sempre era o liuto o cetra con libri di musica, ed altri istromenti musici. V' erano poi parecchi libretti volgari e latini riccamente adornati. Ella non mezzanamente si dilettava delle rime volgari, essendole stato in ciò esortatore, e come maestro il nostro piacevolissimo messer Domenico Campana detto Strascino; e già tanto di profitto fatto ci aveva che ella non insoavemente componeva qualche sonetto o madrigale ». Ed a proposito del celebre camerino seguita narrando come essendo andato a farle visita l' ambasciatore di Spagna, e avendo bisogno di sputare, trovò che il luogo meno improprio a ciò fare era il viso del servitore che gli stava alle spalle
XIV-1. Cugnoni G. Agostino Chigi il Magnifico. Livorno, Vigo, 1879.
XIV-2. Aretino P. Ragionamento fra il Zoppino fatto frate e Ludovico puttaniere, Cosmopoli, 1660, pag. 442.
XVI-1. E poeti e letterati non isdegnavano la compagnia della cortigiana (Burchkardt. Diarium etc., ediz. cit. tom. III, pag. 209); Marco Bracci in una lettera ad Ugolino Grifoni segretario di Cosimo I scrive nel novembre 1557 che giunto in Perugia il cardinale Caraffa nipote di Paolo IV e il cardinai Vitelli « dopo cena pubblicamente fece andare in palazo tutte le putane che a quelli tempi se trovavano in Perugia quale furono in tutte quattordici; e presene per sè una e una per el cardinale Vitello el resto acomodoli a la sua famiglia. (Fabretti, La prostituzione in Perugia nei secoli XIV e XV, Torino, 1885, pag. 46).
XVII-1. Graf. A. op. cit. pag. 350.
XVII-2. Theatro delle donne letterate, pag. 296.
XVIII-1. Istoria della volgar poesia, vol. IV, pag. 67.
XVIII-2. Storia e ragione d' ogni poesia, vol. II, pag. 235.
XVIII-3. Gli scrittori d' Italia, vol. I, par. I.
XVIII-4. Gli scrittori del regno di Napoli, tomo III, parte I.
XVIII-5. Il Vigo pubblicava nel 1885 per nozze Grassi-Rinaldi il sonetto della Tullia all' Ochino (nella nostra edizione a pag. 39), e nella breve prefazione la dice napoletana.
XVIII-6. Presso il Mazzuchelli, loc. cit.
XIX-1. Dell' infinità d' amore di Tullia Aragona, edito dal Canestrini, Milano, Daelli, 1867.
XIX-2. Bibliografia romana, Roma, Botta, 1880, vol. I, pag. 13.
XIX-3. Vedi a pag. 189, versi 27 e seg.
XIX-4. La Jole dell' egloga del Muzio è la Giulia ferrarese, anch' essa etèra famosa e della quale il Domenichi (Facezie, motti e burle, Venezia, 1558, pag. 28) ricorda un motto arguto e mordace. Papa Leone X aveva fatto aprire una nuova strada in Roma lastricata dai tributi che le puttane pagavano, nella quale scontrando la Giulia ferrarese una gentildonna l' urtò un poco. Allora la gentildonna adirata cominciò a dirle villania. Rispose la Giulia: « Madonna, perdonatemi, ch' io so bene che voi avete più ragione in questa via che non ho io ». Nel citato censimento di Roma (pag. 42) ella apparisce come abitante nel rione Campo Marzio, in una casa sotto la parrocchia di S. Trifone di proprietà dell' Ordine Agostiniano.
XIX-5. Lo Zilioli che fu il più diffuso biografo dell' Aragonese le assegna per padre Pictro Tagliavia di Aragona, arcivescovo di Palermo e cardinale di Santa Chiesa; e tale versione venne accolta dal Mazzuchelli, dal Tiraboschi, dal Cinguenè e dal Camerini. Ora nè quando il Muzio scrisse l' egloga alla Tullia nè quando l' Aretino nel dialogo tra il Zoppino e Ludovico, dialogo scritto certo prima del 1539, dice cardinale l' amante della Giulia ferrarese, il Tagliavia era stato assunto alla porpora. Lo fu solo sotto Giulio III l'anno 1553: in tal guisa viene esonerato di nua paternità poco lodevole. Escluso costui, l' unico cardinale che cronologicamente può dirsi padre della Tullia è Luigi d' Aragona, ascritto al sacro Collegio da Alessandro VI nel 1493, promulgato solo nel 1497. Nato in Napoli nel 1474 morì in Roma l' anno 1519 e fu tumulato nella chiesa di S. Maria sopra Minerva, ove vedesi tuttora il suo sepolcro con iscrizione fattagli fare dal cardinale Franciotto Orsini suo esecutore testamentario.
XX-1. Biagi G. Un' etèra romana, Tullia d'Aragona. (Nuova Antologia. Serie III, vol. IV, 16 agosto 1886).
XXI-1. Dice il Muzio:
Visse in tenera etate presso a l' onde
del più bel fiume che Toscana onori.
(Sonetto 1, v. 12-13, pag. 69).
XXII-1. Aretino P. Ragionamenti. loc. cit.
XXIII-1. Zilioli, in Mazzucchelli, loc. cit. Molto diverso è però il ritratto che ne fa il Giraldi, e dall' odio che palesa parlando della Tullia fa se non credere, almeno dubitare che invano abbia picchiato alla porta della bella cortigiana. « Non è alcuno di voi, per quanto io stimo, egli dice, il quale non habbia conosciuto Nana, così detta non perchè ella sia piccola della persona, ma per mostrare la sua sconvenevole et non proportionata grandezza, con voce di contrario sentimento. Questa di casa Aragona si fa chiamare quantunque io intenda che di madre vilissima e di quella medesima vita che ella è in alcune paludi sie nata senza che la madre le habbia mai saputo dire'chi suo padre si fosse. Venuta adunque nella nostra città, ove hora le pari a lei, per lo mal costume del nostro secolo, sono in più abondanza che non si converrebbe, si diè a fare guadagno di sè disonestamente, allettando i giovani con quegli adombrati colori di virtù, di che innanzi dicemmo. Et non pure traheva costei a sè i giovani con simili arti, i quali per lo più sono di poca levatura, ma così toglieva ella il senno ad alcuni huomini maturi e scientiati, che col promettere loro di lasciarli godere di lei, qualunque volta danzassero mentre ella toccava il leuto, facevano scalzi la rosina, o la pavana, o quale altra sorta di ballo più l' era grato et poscia beffandoli li lasciava del promesso scherniti. (Ecatommiti, nov. VII).
XXV-1. Passione d' amore di mastro Pasquino per la partita della signora Tullia e martello di amore delle povere cortigiane di Roma con le allegrezze delle bolognesi. (Tiraboschi, Stor. letter. ital. vol. VII, pag. 1172). Di pasquinate alla Tullia o nelle quali ella sia mentovata non ci consta che il Trionfo della lussuria di mastro Pasquino stampato nel 1537, ove però è ricordata la Tullia solo come molto favorita. Il Biagi ricorda ancora lo sconcio sonetto: « Mentre alla Tullia la madre ragiona » firmato F. C. che conservasi in due codici Magliabecchiani.
XXV-2. Biagi G. op. cit.
XXVI-1. « Considerando gli infrascritti cavalieri la virtù solamente esser quella che concede immortalità ad ogni animo generoso, liberandolo con la eterna fama da ogni oblivion che ne la labile e caduca memoria de li uomini aver loco possa, e che quella da ciascuno meritamente deve esser amata, reverita ed a quel sommo grado che per le umane forze sia possibile esaltata e tanto più quanto ella in persona si ritruovi di ogni altra grazia, e dono di fortuna e natura dotata; per tanto come veri fautori ed amatori di quella e per la verità della quale ogni nobil core deve sempre prender la protezione, e, quando in parte alcuna celarsi e occulta restarsi la veda, produrla in luce e qual chiaro sole farla a tutti risplendere ed apparire: non da alcuna altra passione o fine mossi ed indotti, si offeriscono non pregiudicando alle onorate leggi de la militar disciplina, a tutto il mondo, per un giorno valorosamente sostenere che la loro signora e padrona la III.ma S.ra Tullia de Aragonia per le infinite virtù quali in lei risplendono è quella che più merita che tutte le altre donne de la preterita, presente e futura etate; ed acciò che qualunque, de la sua immortal gloria invidioso, diversamente o parlasse o sentisse, possa presto certificarsi e risolversi; declarono detto sostenimento, doversi intendere totalmente secondo l' ordine de torniamenti de li antiqui e gloriosi cavalieri; e così gli inestimabili meriti de la prefata signora, se pure non fussino a sufficenza noti e chiari, secondo il dovere si manifesteranno a lo ardire e valor de li suoi servitori, similmente per tale occasione più celebri e palesi saranno, onde ciascuno poi non dubitano che confessare sarà costretto, sì come a loro non ritrovarsi cavalier di virtù superiori, così a la prefata signora pari o simile non esser mai stata o potere essere nei secoli futuri ». I sostenitori del valore della Tullia erano Paolo Emilio Orsini, Accursio Mattei, Brunoro Neccia, Alberto Rippe, Marco da Urbino, e Bernardo Rinuccini.
XXVIII-1. Il Muzio nell' egloga VI del IV libro intitolata Argia, dice che la Penelope ebbe per patria
L' orribil Adria e que' secreti stagni
che le palustri lor superbe canne
cercan di pareggiar ai nostri allori.
Là per quelle contrade umide e salse
a la dolce e vezzosa fanciulletta
i lascivi delfin festosi giri
tessean saltando intorno; a la sua culla
le Nereidi portavano e i Tritoni
conche da i marin liti e fresche perle.
E più sotto lo stesso Muzio ci fa sapere come da Venezia muovesse con la madre e la Tullia per Ferrara.
Indi pargoleggiar, su per le rive
fu vista un tempo del gran re de' fiumi;
poi come la guidava il suo destino
varcati d' Apennino i duri gioghi
tenne lunga stagione adorni e lieti
i poggi d' Arbia e le campagne d' Arno.
La sorella della Tullia morì di 13 anni ed 11 mesi nel febbraio del 1549 e fu sepolta nella chiesa di S. Agostino, innanzi all' altar maggiore. L' iscrizione sepolcrale è riportata dal Galletti e dal Forcella; in essa è chiamata Penelope Aragona, quasi la Giulia ferrarese per essere un tempo stata l' amante di un cardinale di casa Aragona avesse il diritto di chiamare Aragonesi anche i figliuoli nati parecchi lustri dopo che il buon cardinale aveva reso l' anima a Dio.
XXIX-1. Riportiamo per brevità solamente il brano della lettera alla Isabella d' Este che più particolarmente riguarda la Tullia. « V. Ecc. intenderà come gli è sorta in questa terra una gentil cortegiana di Roma, nominata la S.ra Tullia la quale è venuta per istare qui qualche mese per quanto s' intende. Questa è molto gentile, discreta, accorta et di ottimi et divini costumi dotata; sa cantare al libro ogni motetto et canzone, per rasone di canto figurato; ne li discorsi del suo parlare è unica, et tanto accomodatamente si porta che non c' è homo nè donna in questa terra che la paregi, anchora che la Ill.ma S.ra Marchesa di Pescara sia ecc.ma, la quale è qui, come sa V. Ecc. Mostra costei sapere de ogni cosa, et parla pur sieco di che materia te aggrada. Sempre ha piena la casa di virtuosi et sempre si puol visitarla, et è riccha de denari, zoie, colanne, anella et altre cose notabile, et in fine è ben accomodata in ogni cosa….. (Un' avventura di Tullia d' Aragona, nella Rivista storica mantovana, vol. I, fasc. I, fasc. 1-2, 1885).
XXXI-1. Anno Domini M.D.XLIII. indictione secunda die vero martis VIII mensis ianuarii. Silvester olim….. de Guicciardis ferrariensis contraxit matrimonium cum D. Tullia Palmeria de Aragonia per verba de presenti et anuli dationem et receptionem respective in forma iuris et sacrorum canonum et omni meliori modo, etc. Rogantes, etc. Actum Senis. -- Ego Sigismundus Mannius Ugolinius notarius rogatus. (R. Archivio di Stato in Siena, Scritture concistoriali, ad annum).
XXXIII-1. 1544. Die dicto (5 februarii) de sero.
Hieronymus de Ballatis Prior.
D. Achilles Orlandinus
Conterius de Sansedoniis
Franciscus Arongherius
….. et deliberaverunt declarare et declaraverunt D. Tulliam de Aragona Sen. habitantem, non esse comprehensam in statuto meretricium, dantes licentiam omnibus et quibuscumque personis locandi domos dicte domine Tullie, et absque aliqua pena, et mandaverunt fieri decretum dicte declarationis et licentie in forma. Et fuit factum infrascripti tenoris: Spectatissimi Domini Executores Generalis Cabelle Magnifici Comunis Sen., convocati et congregati solemniter, etc., audito pluries Domino Aurelio Manno Ugolino procuratore et eo nomine Nobilis domine Tullie filie quondam Constantii de Palmeriis de Aragona et uxoris domini Silvestri de Guicciardis ferrariensis, producente eius mandatum manu Ser Sigismundi Manni notarii, etc., exponente qualiter praefata Domina Tullia ob novam compilationem Statutorum Reipublicae Sen., a nonnullis videlicet indebite et iniuste reputatur et diffamatur, eidem non licuisse nec licere deferre nec portare vestes et alia ornamenta muliebra que licite sunt et conveniunt personis honestis et nobilibus, et commorari et habitare in locis civitatis in quibus licitum est habitare omnibus personis honestis et nobilibus; et quia rei veritas est, quod praefata D. Tullia ducet vitam honestissimam et propterea ea que supradicta sunt sibi non debent quoquo modo esse prohibita, producente ad iustificationem predictum processum in Curia Domini Capitanei lustitie Civitatis Sen., manu ser Lactantii Lucarini notarii publici Sen., nec non decretum magnificorum D. Secretorum Officialium Balie manu Ser Alexandri Boninsegni Notarii publici Sen., et petente in, de ut super predictis de opportuno iuris remedio providero et pro iustitia consulente indemnitati prefate Domine Tullie, servatis servandis, omni meliori modo; Habita plena notitia et clara informatione de omnibus supra narratis de vita, moribus et honestate et qualitate dicte Domine Tullie, visu processu predicto et summa inde lata, testibus in eo examinatis decreto predicto, et omnibus denique visis, auditis et consideratis que videnda et consideranda erant, vigore auctoritatis eisdem concesse a Statutis Reipublicae Sen., servatis servandis et omni meliori modo, etc., Solemniter deliberaverunt prefatam D. Tulliam minime comprehendi in Statuto de meretricibus et questus sui corporis facentibus desponente, sibique licuisse et licere commorare et habitare in quibuscumque locis civitatis ad suum libitum, et vestes ac habitum deferre prout et sicut et in omnibus et per omnia licuit et licet personis et mulieribus honestis et nobilibus, et ita sibi licentiam et facultatem concesserunt, mandantes de predictis sibi publicum fieri decretum, et illud inviolabiliter osservari a quibuscumque personis tam publicis quam privatis sub pena comminationis arbitri quibuscumque in contrarium non obstantibus, et omni meliori modo, rebus tamen stantibus pro ut stant et non aliter nec alio modo. (Archivio di Stato in Siena, Buste degli esecutori di Gabella, 1544 gennaio 1, 1545 giugno 30, c. 12-13).
XXXV-1. Die 23 augusti (1544).
Operta la cassa fu retrovata una politia et acusa del tenore susseguente, cioè:
La Signora Tullia de Aragona per la pascha di Spirito Santo portò la sbernia contro li statuti.
Ottaviano Tondi, Horatio Pecci, Il Signor Gaspare servitore del Signor D. Giovanni.
Vide in filo processum agitatum super vita causa ex quo apparet de sententia per quam fuit declaratum sibi licere portare sberniam istantibus omnibus, etc., (K. Archivio di Stato in Siena, Decreti, polizze, ecc. del Capitano di Giustizia del 1544, luglio-dicembre, c. 53).
I documenti da noi riportati a pag. XXXI-XXXVI furono rinvenuti nell' Archivio di Stato di Siena dal compianto Luciano Banchi.
XXXVI-1. Pecci G. A. Continuazione delle memorie storico-critiche della città, di Siena fino all' anno M.D.LII. Siena, Bindi, 1758, vol. III, pag. 143.
XXXVI-2. Sonetto XXXVI.
XXXVI-3. Biagi G. op. cit. -- Bongi S. Il velo giallo di Tullia d' Aragona. Estratto dalla Rivista critica della letteratura italiana, anno III, n. 3, marzo 1886.
XXXVII-1. « Le meretrici non possino portare vesti di drappo e seta d' alcuna ragione, ma sibbene quante gioie e quanto oro e argento esse vorranno, et sia tenuta portare un velo, o vero sciugatoio o fazzoletto o altra peza in capo che habbi una lista larga un dito d' oro o di seta o d' altra materia gialla e in luogo che ella possa essere veduta da ciascuno; et tal segno debbia portare a fine che elle sien conosciute dalle donne da bene e di honesta vita, sotto pena se la ne mancheranno di scudi dieci in oro di oro di sole per ciascheduna volta che le trasgrediranno e sian sottoposte al Magistrato delli spettabili Otto di Balìa, alli spettabili Conservatori di Legge, et alli Offitiali dell' Honestà intra li quali magistrati habbi luogo la preventione da distribuirsi come l'altre pene che di sotto si dichiareranno. (Contini. Legislazione toscana, vol. I, pag. 332).
XXXVIII-1. Edita dal Bongi, op. cit., ed ancora dal Biagi.
XXXIX-1. Archivio di Stato in Firenze. Luogotenenti e Consiglieri di S. E. il Duca di Firenze. Deliberazioni, ad annum.
XL-1. « La S.ra Tulja d'Araona a fronte alle dette dee dar per sua tassa imposta come di sopra S.40--4 ». Archivio di Stato in Roma, Fabbriche camerali.
XLI-1. Il testamento fu rinvenuto nell'Archivio di Stato di Roma dall' archivista Cav. Costantino Corvisieri. --« Del 1556 a dì 2 de marzo. Al nome di Dio, &. Io Tulia de aragona sana per gratia di Dio de mente et intelletto benchè inferma del corpo volendo disporre dei miei beni acciò che doppo morte mia non ne nasca ad alcuno lite o scandalo, ordino et faccio il mio ultimo testamento et mia ultima volontà in questo modo che seguita, cioè: In prima racomando l'anima mia all'altissimo Dio et alla sua gloriosa Madre Vergine Maria et a tutta la corte del cielo. Lasso alla Lucretia mia creata moglie di Matteo hoste questo fornimento di camera cioè queste spalliere verde et questo letto ove io ora giaccio con suoi matarazzi, lenzuoli para uno et una coperta, fuorchè lo sparviere, et più una vesta di rascia negra usata aperta denanzi;
Item un roverso rosso nuovo, cioè una sottana de roverso, una saia biancha listata de pagonazo et una lionata, una montatura a la romana, cioè panno listato et lenzolo, dieci scudi d'oro et sia pagata del vino che io ho havuto da lei;
Item lasso alla putta Christofora mia serva sia vestita di panno ordinario negro et datole dieci scudi d' oro: item lasso alle povere orfanelle cinque scudi d' oro; item lasso alle monache convertite quella parte chelli viene in rigore della bolla: item lasso alla compagnia del crocifisso un paramento di taffetà negro leggiero semplice.
Item lasso a Santo Agostino un mezo scudo di cera ogni anno per ardere il dì de' morti a la mia sepoltura la quale se non serrà arsa alla mia sepoltura da i frati non sia obligato l' herede a darla più. Item lasso che ogni anno si dia mezo scudo per far dir la messa di San Gregorio per l' anima mia. Item lasso a mastro Panuntio medico una veste di rascia negra da medico che gli sia fatta nuova.
Item in tutti gli altri miei beni et in tutte le mie ragioni et attioni tanto presenti come d' avenire dovunque siano o saranno io instituisco e faccio e con la mia propria bocca nomino Celio che è in protettione de Messer Pietro Cioccha scalco del cardinale Cornaro, istituisco dicio et faccio detto Celio herede universale al quale lascio tutti i miei beni ragioni et attioni per ragione et causa de universale institutione con patto et conditione che detti miei beni siano venduti et fattone dinari siano posti in luogo chelli fructino nè possi disporre Cerlo nè altri della principal somma di detti dinari sinchè detto herede non sia all' età di anni venticinque, ma dell' entrata senne nutrisca et serva pep impa[ra]re littere et altre virtù. Et se detto herede (che Dio non voglia) mancasse inanzi all' età di venticinque lascio et substituisco herede in vita sua Messer Pietro Chiocca suo protettore con condittione che ogni anno dia dicci scudi a una povera orfana da maritarsi, il restante senne serva messer Pietro per i suoi alimenti et dopo la morte di messer Pietro Chiocca si stribuisca ogni cosa ad opere pie et queste debbiano essere le mie ultime volontà, et mio ultimo testamento li quali voglio che vaglino in virtù et forza di testamento et ultime volontà et se in tal modo per alcun rispetto non potesse valere, voglio che vaglia in virtù et forza di codicillo et di donatione infra vivi o per causa di morte et in quel meglior modo che di ragione può e potrà valere e sostenersi. Et per essere io impedita ho fatto scrivere questo da persona a me fedele et io l' ho sottoscritto di mia propria mano in fede della verità questo di 20 di marzo 1556.
Item lasso di essere sepelita in Santo Agostino e nella sepoltura di mia madre et mia et alle mie esequie non voglio altro che i frati di Santo Agostino et la compagnia del Crocifisso della quale io sonno, et sia sepulta a ventiquattro hore senza cerimonie, semplicemente.
Et lasso et instituisco con ogni miglior modo et forma che fare et instituire se puote esecutori di questo mio testamento il Reverendo vescovo di Tolone e Messer Mario Fregapane, i quali supplico per l' amor de Dio et per la fede che ho in loro signorie che vogliano doppo la mia morte fare eseguire a puntino queste mie ultime volontà per magior dechiaratione della quale io come di sopra ho detto mi sottoscrivo di mia propia mano.
Io Tullia Aragona affermo quanto sopra et instituisco herede universale Celio come di sopra ho detto. A tergo autem, ecc. L'entroacluso è il testamento di me Tullia Aragona il quale ho sottoscritto de mia propria mano et ligatolo con el filo et sigillatolo sopra esso filo il quale consegno a M. Virgilio Grandinelli notario pubblico presenti li testimonii sottoscritti da me rogati et non voglio sia aperto se non doppo la morte mia, et in fede di ciò mi sottoscrivo di mia propria mano. Io Tullia Aragona manu propria. Quorum testium etc. (Archivio di Stato in Roma, Not. A. C. vol. 6298, num. 69).
XLV-1. Il malevolo Giraldi scriveva di lei che aveva il viso non bello nè piacevole « il quale oltre la bocca larga et le labbra sottili era disordinato da un naso lungo, gibbuto et nella estrema parte grosso et atto a porre sommo difetto in ogni bella faccia s' egli tra le guancie vi fosse posto. (Ecatommiti, loc. cit.)
XLVIII-1. In una lettera datata di Venezia li 6 giugno 1537 e scritta allo Speroni esaltandogli il suo Dialogo egli diceva: La Tullia ha guadagnato un tesoro che per sempre spenderlo mai non iscemerà, e l' impudicitia sua per sì fatto onore può meritamente essere invidiata dalle più pudiche e dalle più fortunate.
XLVIII-2. Nella commedia del Razzi intitolata la Balia (Firenze 1560) in fine della scena VII dell' atto III leggesi:
LIVIO (padrone). Io non conobbi mai giovane di più alto animo di lei e di più elevato spirito.
BROZZI (famiglio). O degli uomini inferma e instabil mente! Pur ora la chiamaste puttana e femmina di mondo, ed ora per contrario dite tanto ben di lei?
LIVIO. Sarebbe forse la prima nobile e d' animo grande che è stata puttana? Che è stata la Tullia d' Aragona, Isabella di Luna e altre?
Anche il Lasca che pure si atteggia, benchè un po' tardi, ad amante della Tullia, nel XXII madrigale lagnandosi che la sua donna, anch' essa cortigiana
lodata ancor non sia
con dolce stile e soave armonia,
dice che
celebrar si sente ognora
con gloria alta e divina
e Tullia e Totta e Fioretta e Nannina
che, bench' elle sieno oggi al mondo rare,
non si ponno agguagliare
alla Cecca gentil che m' innamora.
XLIX-1. Noli discedere a muliere sensata et bona, quam sortitus es in timore Domini: gratia enim verecundiae illius super aurum. (Eccl. VII, 21).
L-1. Cereseto G. B. Storia della poesia in ltalia. Milano, Silvestri, 1857. vol. I.
LII-1. Aretino P. Ragionamenti. Cosmopoli, 1660; parte I, giornata III. -- Graf. A. op. cit. pag. 19 e seg.
LII-2. Il Domenichi nelle sue Facetie, ecc. pag. 32, ricorda una disputa che alcuni cortigiani ebbero in casa dell'Aragona sui pregi del Petrarca.
LIII-1. Vedi nota a pag. 29.
LIV-1. Per i riscontri usiamo delle Rime di F. Petrarca con l' interpretazione di G. Leopardi e con note inedite di F. Ambrosoli. Firenze, Barbèra, 1879.
LV-1. Questo dialogo fu edito in Venezia dal Giolito nel 1547 in-8 e ristampato in Milano nel 1864 dal Daelli nella sua Biblioteca rara con prefazione di Eugenio Camerini (Carlo Téoli).
LVI-1. Il Meschino e il Guerino. Poema. In Venezia, per Gio. Battista Melchior Sessa, 1560, in-4.
LVI-2. Crescimbeni, op. cit., vol. I, c. 341.
LVI-3. Gordon di Percel. Biblioth. des Romans, tom. II, pag. 193. -- Crescimbeni, op. cit., vol. I, carte 331. -- Fontanini G. Dell' eloquenza italiana, lib. I, cap. XXVI. Zambrini F. Le opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV ecc. Bologna, Zanichelli, 1878. -- Melzi. Bibliografia dei romanzi di cavalleria in versi e in prosa italiani. Milano, Daelli, 1865.
LVIII-1. Produciamo a saggio del nostro asserto due sole ottave:
A
Ma de l' ostier l' innamorata figlia
non potendo frenar l' accesa voglia,
ch' ognun dorma per casa il tempo piglia
e poi d' ogni timor lieta si spoglia:
disiando il camin di molte miglia,
non pensa che 'l Meschin se ne distoglia:
ponglisi a canto ignuda, e gli si accosta
nè fu pari a la voglia la risposta.
Sveglia messer Brandisio, e fagli offerta
de la da lui già ricusata preda,
de la qual poi che 'l francioso s' accerta
non sa s' ancor ben chiaramente creda
s' ei non esce a battaglia più aperta
dicendo: E basta che mi si conceda,
ridendo seco, e franco s' appresenta
di sorta tal che la mandò contenta.
LIX-1. Mentre il Meschino è condotto alla corte di Pacifero le guide ammirandone il femmineo volto gli chieggono se egli sia uomo o donna: inteso essere uomo gli manifestano l' uso del paese, che ricordava quello di Sodoma. Il Meschino si sdegna, e vorrebbe non entrare in tal corte, ma il re gli fa promettere che sarebbe rispettato, e l' accolse benignamente con ogni onore.
E poi la sera volse ch' egli andasse
a cena seco e fu sopra un tappeto
disteso in terra, e tal fu la sua asse;
ma quel lussurioso ed indiscreto
senza aspettar che più 'l Meschin cenasse,
per mano il piglia e con atto inquieto
lo sfrenato desir gli fa palese
onde 'l Meschin di collera s' accese.
Rinchiuso in prigione per non aver voluto soddisfare Pacifero, vien salvato dalla figliuola del re, che innamoratasi di lui va continuamente a trovarlo ove spesso.
….. abbraccia al Meschin suo la gola
ma ben che freddamente fosse centa
da lui nel mezzo con le braccia, fece
quel che stimar si può, ma dir non lece.
E dopo due sole altre ottave l' innamorata donzella apparisce gravida.
LXII-1. Cf. Rajna P. Richerche intorno ai Reali di Francia. Bologna, Romagnoli, 1872. -- Il Zambrini e il Melzi citano le edizione del Guerino nell'ordine seguente: Venezia 1473, Bologna 1475, Venezia 1477, ivi 1480, Milano 1480, ivi 1482. L' Aragona ignorava forse l' autore di esso che il Rajna afferma essere Maestro Andrea de' Magnabotti da Barbarino di Valdelsa maestro di canto.
RIME A TULLIA D' ARAGONA
[p. [69]]
1. Di Girolamo Muzio
Amor nel cor mi siede e vuol ch'io dica
di qual esca racceso a l' alma mia
sia 'l novo ardor, qual il suggetto sia
ch' è de l' animo mio dolce fatica.
Alma gentil d' alti pensieri amica,
lumi amorosi, angelica armonia,
fan ch' ogni mio disir lieto s' invia
per le vestigia de la fiamma antica.
Colei ch' io canto, nacque in su le sponde
del chiaro fiume che d' eterni allori
ben mille volte ornò le verdi chiome;
visse in tenera etate presso a l' onde
del più bel fonte che Toscana onori:
la sua stirpe è Aragon: Tullia il suo nome.
[p. 70]
2. Dello stesso
Donna che sete in terra il primo oggetto
a l' anime amorose e ai gentil cori,
e i cui gloriosi e alteri onori
sono al mio stile altissimo soggetto;
in voi stessa si volga il chiaro aspetto
de l' alma vostra, in cui degli alti cori
risplende il bel, e 'n tutti i vostri ardori
fiammeggiar si vedrà celeste affetto.
Vedrete in voi mirando l' alma mia,
ch' in voi sempre si specchia e si fa bella,
per infiammarvi in me del vostro lume.
E 'l farà sì, per quel che mi favella
nel petto amor, se rio mortal costume
dietro a bassi pensier non vi disvia.
[p. 71]
3. Dello stesso
Anima bella, che da gli alti chiostri
fosti mandata in questo cieco inferno
a consumar nel suggetto ampio e eterno,
i più famosì e più purgati inchiostri;
mentre s' affannan gl' intelletti nostri
a contemplar il tuo valore interno,
con la voce e con gli occhi al ben superno
gl' inalzi, e d' ire al ciel la via ne mostri.
Quincì è che quale ha in terra alma più rara,
infiammata dal sol, ch' in te riluce,
più lieta a te rivolge ogni pensero.
Ed io, poi che tua fiamma in me traluce,
forse più ch' in altri soave e chiara,
ne porto 'l cor d' eterna gloria altero.
[p. 72]
4. Dello stesso
Quando 'l raggio del bel, ch' in voi risplende,
per l' orecchie e per gli occhi al mio mortale
trapassa, o Donna, un chiaro ardor m' assale,
che d' eterno disio tutto m' incende.
L' anima allor, che 'l novo affetto intende
mover d' alta cagione, ogni mortale
piacer schernendo, e al ciel battendo l' ale,
verso l' amato lume il camin prende:
e com' aquila al sol drizzando gli occhi
al foco vostro s' erge a la salita,
dove alfin pace le promette amore.
Deh! siate larga a lei del bel splendore,
e porgete al suo volo pronta aita,
acciocchè inferma e cieca non trabocchi.
[p. 73]
5. Dello stesso
Mentre le fiamme più che 'l sol lucenti,
onde amor m' arde e già gran tempo m' arse,
vaghi occhi miei non vi si mostran scarse,
mandate nel mio core i raggi ardenti;
orecchi miei, mentre bramosi e intenti
notate 'l suon, che di su in terra apparse,
e ne van le sue voci all' aura sparse,
inviate a la mente i sacri accenti;
anima mia, mentre in mortale oggetto
scorgi ch' eterno è quel che dentro avampa,
allarga il seno al sempiterno zelo:
e vi rimembri che sì chiara lampa,
sì soave tenor, spirto sì chiaro,
sono a voi scala da salire al cielo.
[p. 74]
6. Dello stesso
Amore ad ora ad or battendo l' ale
dal grave incarco leva il mio pensero,
e nel conduce per erto sentero
a gir in parte, ove uom per sè non sale.
E quivi ne l' oggetto alto e immortale
gli dimostra l' esempio vivo e vero,
onde discese il nostro spirto altero
a dover informar cosa mortale.
L' anima accesa a l' eterna vaghezza,
tutta s' accende a far novo disegno
del bel, ch' entro dipinge il divo aspetto.
Ma come poi si move il basso ingegno,
donna mia, per salire a tanta altezza,
cade lo stile, e manca l' intelletto.
[p. 75]
7. Dello stesso
Superbo Po, ch' a la tua manca riva
tutto lieto ti volgi d' ora in ora,
per mirar lei, che le tue piaggie infiora,
e ti fa in mezzo l' onde fiamma viva;
che fa la nostra, ho da dir Donna, o Diva,
lei, che del ben del ciel l' alme innamora?
Oh fosse lunga a lei la mia dimora!
Pensa ella almen ch' io di lei pensi o scriva?
Deh! com' io dico ognor: foss' io con lei
così fosse talora il suo pensiero,
or che dee far di me privo il meschino;
oh vedesse ella aperti i dolor miei,
ch' io so che di pietà quel spirto altero
porteria gli occhi molli, e 'l viso chino.
[p. 76]
8. Dello stesso
Or di là se ne vien questa dolce ora,
ov' è colei che col suo divo aspetto,
mette dentro al mio cor l' ardente affetto,
ond' ancor la sua vista mi ristora.
Oh se così potesse a ciascun ora
essere a lei presente il mio imperfetto,
come sempre la scorge il mio intelletto
io sarei pur d' ogni tormento fora.
Che se dal mover di quest' aura io sento
per sua virtù conforto a i miei martìri,
ben dovrei seco sempre esser contento.
Battete l' ale o vaghi miei sospiri,
e colà andando onde si parte il vento,
a lei portate i miei caldi disiri.
[p. 77]
9. Dello stesso
Lasso, onde avvien che qui non fa ritorno
il chiaro dì, sì come altrove sole?
Non ci risplende il lume di quel sole
che solo suole a gli occhi tuoi far giorno
Iu questo altrui sì placido soggiorno,
perchè son le campagne ignude e sole?
Non cì spira il favor de le parole
che fanno a sè fiorir le piaggie intorno.
Poi ch' a te chiuse sono ambe le porte
de gli occhi e de l' orecchie, anima mia,
ond' esser può che più letizia speri?
Pensa misero a te, chi ti conforte
che me al mio bene ad ora ad or n' invia
il santo amor con l' ale de i pensieri.
[p. 78]
10. Dello stesso
Oh se tra queste ombrose e fresche rive,
ch' or cercan solitarii i passi miei,
meco ne fosse e con amor con lei,
di cui 'l cor sempre parla e la man scrive;
ella a seder qui presso a l' acque vive
si porria in grembo a l' erba, io in grembo a lei,
e da i boschi trarriano i semidei
al sacro aspetto e le silvestre dive.
lo lei mirando, a dir del suo valore
snoderei la mia lingua, e alcun di loro
segneria per li tronchi il chiaro nome;
ella gioìosa e umile in tanto onore
forse di varii fior, forse d' alloro,
tesseria una ghirlanda a le mie chiome.
[p. 79]
11. Dello stesso
Spirto gentile in cui sì chiaramente
e ne la mortal parte e ne l' eterna,
fiammeggia il sol de la bontà superna,
ch' altro non è fra noi lume sì ardente;
mentre io con gli occhi e con l' orecchie intente
raccolgo il doppio bel, che mi governa,
sì vivo foco in me da voi s' interna
che tutta illuminar l' alma si sente;
poi, non capendo in me l' immensa fiamma,
convien ch' in alcun modo esca di fore,
mostrando i raggi de la vostra luce.
Così da voi ne vien lo mio splendore,
ch' ogni mio bel disio da voi s' infiamma,
come 'l lume de' lumi in voi traluce.
[p. 80]
12. Dello stesso
Fiamma che chiaramente il mio cor ardi:
aura che dolcemente mi ristori:
spirto che alteramente m' innamori
col valor, con la voce, con gli sguardi;
quante volte avvien ch' in voi riguardi,
ch' io v' ascolti e ch' io pensi i vostri onori,
tante mi sforzo a i sempiterni cori;
ma 'l mio mortal fa poi che 'l gir ritardi.
O beata alma, angelica armonia,
o vivo lume, che degli alti chiostri
mostrate esempio a l' anìme terrene,
poi ch' a i sensi e nel cor m' avete mostri
la bellezza e 'l piacer del sommo bene,
aiutatemi ancor a l' alta via.
[p. 81]
13. Dello stesso
Spirto felice, in cui sì rare e tante
grazie e virtuti il ciel largo comparte,
che non so se si trovi in altra parte
che d' andar teco a paro alma si vante:
s' a me facesser le sorelle sante
del bramato lor don così gran parte,
ch' io fossi degno di ritrarre in carte
de la tua chiara effigie il bel sembiante:
so ch' io fare' un disegno sì perfetto,
che saria specchio a la futura gente
di quanto ben di su tra noi discende.
Ma, lasso, a tanto onor non mi consente
il sacro coro: e da sè il mio intelletto
sopra i fuochi celesti non ascende.
[p. 82]
14. Dello stesso
Donna se mai vedeste in verde prato
surger felicemente un aureo fiore,
cui porge nutrimento dolce umore,
e vivace calor dal ciel gli è dato;
non altramente lieto e consolato
fiorir si vede un' amoroso core,
perchè 'l suo sole è 'l grazioso ardore,
e la fonte è 'l favor del viso amato.
E come quel, se manca la rugiada,
perduto il bel de le purpuree fronde
convien ch' in breve spazio a terra cada:
così se rio voler o caso indegno,
i suoi disiri altrui fura e nasconde,
seccasi il fior d' ogni felice ingegno.
[p. 83]
15. Dello stesso
Il valor vostro, Donna, il cor m' incende,
lega ogni mio disir, m' impiaga il petto;
e l' alma del suo mal sente diletto,
dal ben ch' ella in voi vede, ode e intende.
M' infiamma il divo raggio onde risplende
il chiaro vostro angelico intelletto;
da i novi accenti è avvinto ogni mio affetto,
e da' begli occhi il colpo al cor discende.
E non ha Amor in tutta la sua corte,
m' oda chi vol, sì graziosi sguardi,
sì chiara voce, o sì vivace lume.
Perch' io pur prego lui, ch' ognor più forte
con tal foco, in tai lacci e con tai dardi
mi trafigga, m' annodi e mi consume.
[p. 84]
16. Dello stesso
O novo esempio de l' eterna luce,
alma gentile, ond' ogni alma più rara
mirando la beltà ch' in te riluce,
del vero amore i veri effetti impara;
se del lume ch' in te dal ciel traluce,
a l' alma mia non sarai punto avara,
spero col raggio di sì altera duce
farmi fiamma di fama al mondo chiara.
Te canteran mie rime in ogni parte:
e diran que' ch' avran più vivo ingegno:
qual fu quel foco onde tal lampo uscìo?
Amor promette a te ne le mie carte
nome immortale. O così fosse degno
ne le tue d' aver vita il nome mio!
[p. 85]
17. Dello stesso
In su le rive del superbo fiume
ch' altrui già die' sepolcro in mezzo l' onde:
ond' altri mutò il crine in verdi fronde,
e altri si vestì di bianche piume;
invaghito del dolce altero lume,
lo qual di cielo in cielo in voi s' infonde,
e con sua luce ogni altra luce asconde,
arse 'l mio cor oltra mortal costume;
poi sendo privo de gli amati rai,
non so dove si chiuse il grande ardore,
come fuoco ch' in cener si ricopra.
Or rivedendo il vostro almo splendore,
l' antica fiamma, chiara più che mai,
convien ch' in riva d' Arno si discopra.
[p. 86]
18. Dello stesso
Sogni chi vuol di riportar corona
da gli alti gioghi del sacrato monte;
altri s' attuffi nel famoso fonte
che fa più chiaro e 'l nome d' Elicona;
sia gloria altrui se la sua lira suona
aver le sacre Muse al cantar pronte;
cinga altrui Febo la felice fronte
de la fronde, che mai non l' abbandona;
altri si vanti che benigna e lieta
stella, a lui rivolgendo il suo splendore,
a questa luce il fece uscir poeta;
il mio Parnaso, il mio perpetuo umore,
le mie Dive, il mio Apollo e 'l mio pianeta,
è 'l valor vostro impresso nel mio core.
[p. 87]
19. Dello stesso
Donna gentile, i cui beati ardori
del celeste splendore e del mortale,
spargon virtù che mentre i cori assale,
ne l' alme accende mille eterni amori;
se 'l vostro sole interno e 'l bel di fuori,
a voi da me n' han tratto il mio immortale:
e se Amore al mio stile impenna l' ale
da gir portando al Cielo i vostri onori;
se cara sete a me più di me stesso;
s' a voi ne volar tutti i miei sospiri;
se con voi vivo e senza voi son morto;
se mi vedete 'l cor ne gli occhi espresso,
e le mie pene, e i miei caldi disiri,
ben dovreste pensare al mio conforto.
[p. 88]
20. Dello stesso
Quando, com' Amor vuol, la donna mia,
tra soavi sospiri e dolci accenti,
move la lingua a angelici concenti,
e l' aura del bel petto a l' aere invia;
al suon de la dolcissima armonia
ferman le penne i tempestos iventi;
stanno i giri del ciel taciti e intenti;
e non ch' altri, ma Febo il corso oblìa.
E qual alma mortal la mira e ascolta,
ad ogni uman disìo tutta si toglie
e con tutti i pensieri al cielo aspira.
La mia, che mai da lei non si discioglie,
col vago spirto suo da Amore accolta
a quel si stringe, e 'ntorno a lei s' aggira.
[p. 89]
21. Dello stesso
Ebbe la favolosa antica etade
chi co 'l tenor di feri e dolci canti
e con novo splendor di rea beltade,
allettando affogava i naviganti:
e or donata ci ha l' alta bontade
donna, che con l' ardor de gli occhi santi
e con note d' amor e di pietade,
rende porto e salute a l' alme erranti.
Voi, Donna mia, voi sete alma sirena
voi, voi Tullia gentil, che fido lume
nel mar d' amor porgete e placid' aura.
La vista vostra angelica, serena,
fa ch' in voi l' altrui vita ognor s' allume,
e 'l cantar d' ogni affanno ci restaura.
[p. 90]
22. Dello stesso
Già vide alle sue sponde il gelid' Ebro
Orfeo cantare, e tacite ascoltarlo
varie fere e augelli, e seguitarlo
quercia, popolo, abete, olmo e ginebro.
Vista ha 'l gran Po, veduta ha 'l chiaro Tebro,
vede 'l bel Arno, a cui sovente parlo
quel che mi detta l' amoroso tarlo,
cantar la donna, ch' io sempre celebro;
ma se colui seguiano e sassi e sterpi,
questa ogni alma più dura e più silvestra
trae dal grave suo incarco, e al ciel la scorge.
Beata voce, che dal cor mi sterpi
ogni vil cura, onde per te s' addestra
l' alma a salir ove per sè non sorge.
[p. 91]
23. Dello stesso
Donna, a cui 'l santo coro ognor s' aggira
de l' alme Muse e la cui chiara fronte
verdeggia de l' onor del sacro Monte,
ove chi s' erge eterna vita spira:
qual anima gentil v' ascolta e mira
brama far vostre grazie al mondo conte;
poi non trovando rime al cantar pronte
com' è la voglia, duolsi e ne sospira.
Di così bello, raro e alto suggetto,
dal vostro infuori, ogni altro stile è indegno;
quel sol n' è degno e altro non v' arriva.
Io per molto provar, vero disegno
di voi non feci mai; ma dentro 'l petto
ben vi porto scolpita, bella e viva.
[p. 92]
24. Dello stesso
La sembianza di Dio che 'n noi risplende
di cielo in cielo e c' ha nome beltade
e move Amor, per perigliose strade
de l' orecchie e de gli occhi al cor discende;
perchè dal senso il senso il bello apprende,
e 'n la natura nostra è qualitade
ch' in mortal disiderio il mortal cade,
e così bassa voglia il senso accende.
Ond' è ch' ingombro di piacer terreno
entrando il mal fidato messaggero
fa ne l' alma sentir del suo veleno.
Quinci è che talor cade il mio pensero;
ma voi, ch' avete in man la verga e 'l freno,
ne 'l ridrizzate per erto sentero.
[p. 93]
25. Dello stesso
Dal mio mortal co 'l mio immortal m' involo
sovente o Donna; e da me stesso sciolto,
al bel vostro splendor tutto rivolto,
l' ali battendo al ciel mi levo a volo.
E lontanato dal terrestre suolo
giungo a l' esempio de l' amato volto,
donde è tutto quel bello in voi raccolto,
che fa 'l mio amor fra gli altri in terra solo.
Deh! vi priegh' io per le bellezze vostre,
Tullia, ch' al bel camin compagna eterna
mi siate, senza mai voltarvi a dietro.
Ch' amor, s' ancor da voi tal grazia impetro,
promette a noi tranquilla pace interna,
e certa gloria a i nomi e a l' alme nostre.
[p. 94]
26. Dello stesso
Donna, più volte m' ha già detto Amore
che nell' anima vostra i miei pensieri
son tutti espressi così vivi e veri
com' io voi, viva, ho impressa in mezzo 'l core;
e ch' accesi del vostro alto splendore
ne van vostri disir cotanto alteri,
ch' a mortal non convien che da voi speri
altra mercede ch' immortal dolore.
Così dice egli, e io per prova il sento,
che quant' uom più vi serve e più v' adora,
voi del suo mal più vi mostrate vaga;
per tutto ciò d' amarvi io non mi pento:
anzi bramo ch' in me più d' ora in ora
veder possiate quel che più v' appaga.
[p. 95]
27. Dello stesso
Se ben gli occhi e l' orecchie alcuna volta
vi mostran tale a i miei bassi disiri,
che surgon dal mio core agri sospiri
ond' è ch' al lamentar la lingua è sciolta;
tosto che l' alma in sè stessa raccolta,
a l' alma vostra avvien che si raggiri,
in diletto si cangiano i martiri
e la mia lingua a ringraziar si volta.
Che la pena, che par che sì mi prema
non passa oltra 'l mortal; ma la dolcezza
acqueta i sensi e pasce lo intelletto.
Donna sia benedetta quella asprezza,
ch' anzi 'l chiuder de gli occhi all' ora estrema,
morire insegna al mio terreno affetto.
[p. 96]
28. Dello stesso
Donna, l' onor de' i cui be' raggi ardenti
m' infiamma 'l core e a ragionar m' invita,
perchè sia nostra penna mal gradita,
l' alto nostro sperar non si sgomenti.
Rabbiosa invidia i velenosi denti
adopra in noi mentre 'l mortal è in vita;
ma sentirem sanarsi ogni ferita
come diam luogo a le future genti.
Vedransi allor questi intelletti foschi
in tenebre sepolti, e 'l nostro onore
viverà chiaro e eterno in ogni parte.
E si vedrà che non i flumi Toschi,
ma 'l ciel, l' arte, lo studio e 'l santo amore,
dan spirto e vita ai nomi e a le carte.
[p. 97]
29. Dello stesso
Donna, il cui grazioso e altero aspetto
e 'l parlar pien d' angelica armonia,
scorgon qual alma presso a lor s' invia
a contemplar il ben de l' intelletto;
deh, così amor non mai m' ingombri 'l petto
d' umil disir, nè mai di gelosia
gustiate 'l tosco: e sempre intenta sia
a l' interna beltate il vostro affetto.
Date, vi prego a me vera novella
de l' alma mia che del mio cor uscita,
voi seguendo, è venuta a farsi bella:
che se da voi la misera è sbandita,
ella senza voi stando e io senz' ella,
non ritrovo al mio scampo alcuna aita.
[p. 98]
30. Dello stesso
Quai d' eloquenza fien sì chiari fiumi
luce che d' alto ardor mio core incendi,
ch' aguagli tua virtù? Se la' ve splendi
a superno desio l' anime impiumi?
Come dinanzi a Borea nebbie e fumi,
così di là, dove tu i raggi stendi,
fugge ogni vil pensier, sì ch' a noi rendi
la vita in terra de i celesti numi.
E poi ch' a me non son tuoi lumi scarsi
di quel splendor, che da l' eterno regno
in te disceso, tu fra noi comparti;
di quel c' ho dentro e fuor non può mostrarsi,
faranno al mondo manifesto segno
l' amarti, il celebrarti e l' onorarti.
Risposta al sonetto della Tullia; Fiamma gentil
che da gl' interni lumi.
[p. 99]
31. Di Benedetto Varchi
Quando doveva, ohimè, l' arco e la face,
l' una spenta del tutto e l' altro stanco,
a questo ardito e tormentoso fianco
per suo gran danno e mio, troppo vivace,
non breve tregua pur, ma eterna pace
donar, poi che nel lato destro e manco
per le nevi del capo omai vien bianco
il crin fatto d' argento, che sì spiace;
più che mai fresco e più che mai cocente,
mi saetta lo stral, m' accende il foco
di tal ferite e così caldo ardore,
ch' ogni salute a mio soccorso è poco:
anzi cresce la piaga e fa maggiore
incendio, ch' al suo mal l' alma consente.
[p. 100]
32. Dello stesso
Donna, che di bellezza e di virtude
e d' ogni alto valor gran tempo in cima,
sola fra tutte l' altre non che prima,
piovete ne' miglior senno e salute;
ben so ch' a dir di voi sarebber mute
le lingue tutte: e qual prosa nè rima
poria cose aguagliar, che poscia o prima
non furon mai, nè saran mai vedute?
Tacciomi dunque fuor gelato e fioco,
per tema di scemar sì chiare lodi;
ma dentro infino al ciel notte e dì grido;
ringraziando le stelle, il tempo e 'l loco,
gli sguardi, gli atti, le parole e i modi,
che mi donaro a cor gentile e fido.
[p. 101]
33. Dello stesso
Io non miro giammai cosa nessuna,
o in terra, o in ciel, ov' io non veggia quella,
ch' amor in sorte e mia benigna stella,
da le fasce mi diero e da la cuna.
Ogni nube m' assembra e sole e luna
la mia donna gentil più d' altra bella;
monte o valle non veggio, o poggio, ov' ella
per lo mio ben non sia, ch' è nel mondo una.
L' erbe, gli alberi, i fior, le frondi, i sassi,
mi rappresentan sempre, e l' onde, e l' ora,
quel viso dopo il qual nulla mi piacque.
U' gli occhi giro, ovunque movo i passi,
nulla non scorgo, o penso, o sento fuora
di lei, che per bearmi in terra nacque.
[p. 102]
34. Dello stesso
Se di così selvaggio e così duro
legno sì aspro frutto, ohimè, v' aggrada:
chi fia ch' unqua vi miri e poscia vada
di non sempre penar, Donna, securo?
Bench' io, poi ch' ognor più m' inaspro e induro
del duol, cui lungo a voi fo larga strada
de la mia pena sola, non pur rada
fra quante sono al mondo e quante furo,
dovrei trovar pietà, ch' asprezza eguale
o più selvaggia e solitaria vita,
non sentì mai e visse alcun mortale.
Fera legge d' amor, sperar aita
del dolor che n' ancide, e del suo male
pascer l' alma, via più che saggia, ardita
[p. 103]
35. Dello stesso
Per non sentir la turba iniqua e fella
così larga al mal dir, come al ben parca,
da lei, che nel mio cuor siede monarca,
non men cortese che leggiadra e bella;
non mio voler seguendo ma mia stella,
parto col corpo sol, che l' alma scarca
de la soma mortal meco non varca,
ma riman seco obediente ancella.
E se quel, che fra me tacito e solo
cantando vo' con più di mille insieme,
per la Garza, e Forcella, e Tavaiano,
udisse pur un dì l' invido stuolo
ben morria di dolor veggendo vano
tornar l' empio ardir suo, ch' indarno freme.
[p. 104]
36. Dello stesso
Se da i bassi pensier talor m' involo
e me medesmo in me stesso ritorno;
s' al ciel, lasciato ogni terren soggiorno,
sopra l' ali d' amor poggiando volo:
quest' è sol don di voi, Tullia, al cui solo
lume mi specchio e quanto posso adorno
la' ve sempre con voi lieto soggiorno,
da santo e bel disio levato a volo.
E se quel che entro 'l cor ragiono e scrivo,
del vostro alto valor Donna gentile,
ch' avete quanto può bramarsi a pieno
ridir potessi, o beato, anzi Divo
me, per me proprio tutto oscuro e vile
se non quant' ho da voi pregio e sereno.
Risposta al sonetto della Tullia; Quel che 'l
mondo d' invidia empie e di duolo.
[p. 105]
37. Dello stesso
Ninfa, di cui per boschi, o fonti, o prati,
non vide mai più bella alcun pastore
ver di Diana e de le Muse onore,
cui più inchinano sempre i più pregiati:
così siano a Damon men feri i fati
nè gli renda mai Filli il dato core;
e ella arda per lui di santo amore
più ch' altri fosser mai lieti e beati:
com' alma esser non può sì cruda e vile,
la quale essendo veramente amata
non ami un cor gentil già presso a morte.
Dunque s' a dotto no, ma fido stile
credi, ama e non dubbiar, che ben pagata
sarà d' alta mercè tua dolce sorte.
Risposta al sonetto della Tullia; Se 'l ciel sempre
sereno e verdi i prati.
[p. 106]
38. Di Giulio Camillo
Tullia gentile, a le cui tempie intorno
verdeggia avvolta l' onorata fronde,
e la cui voce a l' armonia risponde
di chi fa in Elicon dolce soggiorno;
qualora a voi fo col pensier ritorno
e ritrovo semenze sì profonde
in sì leggiadro stil, sì mi confonde
novello orror, ch' in me più non soggiorno.
Vostra Musa di me cantando canta
d' uno sterpo silvestro, a cui nemica
stata è natura e 'l ciel, e io no 'l celo.
Ben è la vostra fortunata pianta,
che lieto il Re de' fiumi la nutrica,
e la rinforza il gran Signor di Delo.
[p. 107]
39. Dello stesso
Poi ch' a la vostra tanto alma beltade,
onde pregiata d' onorate e rare
spoglie di tante elette anime chiare
n' andate altero specchio ad ogni etade;
piace ch' io ancor per le medesme strade
seguir vostre amorose insegne impare;
non siano almen vostre alme luci avare
di quel raggio, ond' io scorgo ogni bontade.
E nel bel petto vostro Amor ispiri
pietà e mercede al mio dolore eguale,
e a gli ardenti intensi miei disiri;
poi se le aggrada il mio destin fatale,
versi in me pur ognor doglie e martiri,
che dolce mi fia sempre ogni altro male.
[p. 108]
40. Dello stesso
Ben fu tra gli altri avventuroso il giorno,
quando l' eterno e gran re de le stelle
fece, per fare il fior de l' altre belle,
di voi, Tullia divina, il mondo adornc
Le grazie tutte e le virtuti intorno
vi fur quasi devote e fide ancelle;
e 'l ciel lasciaro per seguitarvi quelle
in questo nostro umil, basso soggiorno;
però ripiena di celeste ardore,
di gloria accesa e colma di mercede;
vaga di bello e di perpetuo amore;
di grazia albergo e di bellezza erede,
sola fra noi vivete in dolce amore,
del ben del Ciel facendo in terra fede.
[p. 109]
41. Del Cardinale Ippolito De' Medici
Anima bella, che nel bel tuo lume
divino interno ti rivolgi e giri,
e indi in voce dolcemente spiri
il suon ch' avanza ogni mortal costume;
onde la mia poi d' amorose piume
coverta avien che al ciel volando aspiri,
e nel tuo chiaro raggio aperto miri
com' amor sani, ancida, arda e consume;
deh! se l' alta bellezza e 'l dolce canto
ond' in te stessa sol beata sei:
e s' amor punto mai ti piacque o piace:
prego volgendo in me 'l bel viso santo,
al lungo penar mio dia qualche pace,
e qualche tregua a gli aspri dolor miei.
[p. 110]
42. Dello stesso
Se 'l dolce folgorar de i bei crini d' oro,
e 'l fiammeggiar de i begli occhi lucenti,
e 'l far dolce acquetar per l' aria i venti
co 'l riso, ond' io m' incendo e mi scoloro,
son le cagion che per voi vivo e moro,
piango e m' adiro e fo restar contenti
gli spirti afflitti in mezzo i miei lamenti,
e mi par dolce il grave aspro martoro;
non voi sì bella, io non così bramoso;
voi non sì dura, io non sì frale almeno
fossi; non voi d' amor rubella, io servo;
ch' io sperarei nel stato mio gioioso
goder un giorno almen lieto e sereno,
piegando alquanto il core empio e protervo.
[p. 111]
43. Di Bernardo Molza
Spirto gentil, che riccamente adorno
de i più pregiati e cari don del cielo,
cortesemente nel corporeo velo
con tue virtuti fai lieto soggiorno;
deh! s' amor sempre a te faccia ritorno,
di nove spoglie ornando, al caldo e al gelo,
d' uomini e Dei il tuo onorato stelo,
e cresca il valor tuo di giorno in giorno;
fa che 'l nobile tuo chiaro intelletto,
sempre guardando a la più bella parte
di sè, giammai non si rivolga a terra.
Ch' allor vedrai come natura ed arte,
soavemente in te rinchiude e serra
d' ogni bell' opra il seme e 'l bel perfetto.
[p. 112]
44. Dello stesso
Se 'l pensier mio, ov' altamente amore,
Tullia gentil, vostra sembianza impresse,
tutto altamente in sè voi tutta espresse
dal piacer vinto, che mi strinse il core;
e tutta or vi risembra e a tutte l' ore,
trasformando pur sempre in quelle stesse
virtù, grazia c beltà, che vi concesse
Dio, ch' in voi tutto intese a farsi onore:
non dovete voi dir ch' io sia deforme,
ch' io son quello che son fatto voi
bello, e non questa rozza e fragil scorza.
E spero ancor, seguendo ognor vostr' orme,
essere appresso Dio 'l secondo poi,
se 'l bello a trarre il bello sempre ha forza.
[p. 113]
45. Di Ercole Bentivoglio
Poi che lasciando i sette colli e l' acque
del Tebro oscure e le campagne meste,
d' illustrar queste piagge e premer queste
rive del Po col piè Tullia vi piacque;
ogni basso pensier spento in noi giacque,
e un dolce foco, e un bel disio celeste,
quel primo di ch' a noi gli occhi volgeste,
ne le nostre alme alteramente nacque.
Fortunate sorelle di Fetonte,
ch' udir potranno a le lor ombre liete,
i dotti accenti che vi ispira Euterpe!
Potess' io pur con rime ornate e pronte
com' è 'l disio, dir le virtù ch' avete!
Ma troppo a terra il mio stil basso serpe.
[p. 114]
46. Dello stesso
Vaghe sorelle, che di treccie bionde
ornò natura e di fattezze conte;
poi la pietà del misero Fetonte
vi volse in duri tronchi e 'n verdi fronde;
or sotto l' ombre tremule e gioconde
vostre sedendo, fo palesi e conte
le gran beltà de la celeste fronte
di Tullia mia, cantando a l' aure e a l' onde.
Così già sotto i vostri ombrosi rami
cantò d' Onfale sua gli occhi e le chiome
il vincitor de' più superbi mostri.
priego il ciel, che sì v' esalti e v' ami,
ch' eterno sia con voi sempre il bel nome
di Tullia scritto in tutti i tronchi vostri.
[p. 115]
47. Di Filippo Strozzi
Alma gentile, ove ogni studio pose
natura in darvi a pieno ogni eccellenza,
e fece il ciel quasi restarne senza
per dar a voi quel bel, ch' a ogni altra ascose;
voi fra leggiadre donne e gloriose
elesse sola; e per esperienza
si vede altera andarne oggi Fiorenza
de le belle opre vostre alte e famose.
Ma non solo Arno oggi vi loda e canta,
ma dove ancora l' inesperto auriga
cadde, di voi terrà memoria eterna.
Il Tever lascio, che tenera pianta
vi nutrì, dolce essendo ogni fatiga
a chi co 'l spirto e 'l core in voi s' interna
[p. 116]
48. Dello stesso
Uscendo 'l spirto mio per seguir voi,
Donna gentile, in voi vera pietade
spinse l' anima vostra a le contrade
ond' egli uscìo, con che vivessi io poi;
tal che 'l splendor, che dite uscir tra noi
di me, è propria vostra qualitade,
concessavi da l' alta e gran bontade,
per sembianza de i chiari raggi suoi.
Dove scorger si puote un dolce inganno
veggendovi in me vaga di voi stessa;
nè v' accorgete ch' io v' appago a punto.
Che se mi vi toglieste allora il danno
mortal mio vedreste, e fora espressa
la colpa vostra, send' io a morte giunto.
[p. 117]
49. Di Alessandro Arrighi
L' aspetto sacro e la bellezza rara,
eguale a cui non ebbe il mondo ancora;
il folgorar de gli occhi ch' innamora
il mondo tutto, e quasi sol lo schiara;
il parlar saggio, onde la via s' impara
di gir al chiaro e uscir dal fosco fora;
e l' alto sangue, lo cui ammira e onora
chiunque adorno è più di stirpe chiara;
i bei costumi, e 'l portamento adorno;
e col dolce cantare il dolce suono
che fan di marmo una persona viva,
fur le cagioni o donna, ch' in quel giorno
stetti a mirare il bello, a udire il buono,
in guisa d' uom che pensi, parli e scriva.
[p. 118]
50. Dello stesso
Come di dolce più che d' agro parte,
Donna mi feste il dì, ch 'l colpo caro
di voi impiagommi, onde sì ardente e chiaro
foco poscia avampommi a parte a parte,
così men d' agro, che di dolce parte
da me per guiderdon del dono raro;
e giunge a voi per addolcir l' amaro
vostro languir del tutto non che 'n parte;
il foco ch' io dovrei mandarvi ancora
per render merce pari al degno merto,
meco si sta, nè vuol partirsi un' ora.
Selva chiusa non è, nè campo aperto,
nè giardin culto, o poggio aspro o deserto,
che non sappian com' ei m' arde e divora.
[p. 119]
51. Dello stesso
S' il dissi mai ch' io venga in odio a voi,
Donna, ch' io tanto pregio, ed è ben degno;
s' il dissi che mai sempre ira e disdegno
portiate in seno, e sol me stesso annoi;
s' il dissi che 'l mortale eterno muoi
di me non mai giungendo al santo regno;
s' il dissi sia d' amor prigione e segno
de l' acuto suo strale, e preda poi.
Ma s' io nol dissi chi si dolce aprìo
a me lo cor chiudendovi entro i raggi,
non mai rivolga altronde il lume chiaro.
Io no 'l dissi giammai, nè dir disìo:
vinca 'l ver dunque, e 'l falso a terra caggi,
e 'n dolce amor ritorni l' odio amaro.
[p. 120]
52. Dello stesso
S' un medesimo stral duo petti aprìo:
s' arse due cor d' amor un foco santo:
se nascendo 'l piacer morì cotanto
martir, che l' uno e l' altro già sentìo,
Donna, e s' insomma nudrì ambo un disio,
ond' è ch' in me del dir vostro altrettanto
non rivolgete sì, ch' io mi dia vanto
d' esser d' uom fatto un' immortale Dio?
Forse si come sempre ebbi nimica
la stella a i miei disir, così avien ora
ch' io non goda e non sorti una tale brama.
O pur ch' ad alma sì saggia e pudica
parlar di me basso suggetto fora:
come che sia il bel vostro a sè mi chiama.
[p. 121]
53. Di Benedetto Arrighi
Voi che volgete il vostro alto disio
a la chiara virtù, donde si coglie
quelle onorate, sacre, sante spoglie,
di che va altera e Calliope e Clio;
voi che schernite al tempo quell' oblio,
che la fama immortale al nome toglie,
colpa e vergogna de l' umane voglie,
che non son come voi rivolte a Dio;
voi sol vi sete fabricato un tempio
di glorie tal, che gli onori e trofei
non pon lasciar di lui più chiaro esempio;
deh! così potess' io com' io vorrei
le virtuti cantar, ch' in voi contempio
memoria eterna a gli uomini e a li Dei.
[p. 122]
54. Dello stesso
Alma gentile che già foste al paro
de l' alta e gran colonna, oggi si mostra
in voi tutto l' onor de l' età nostra;
in voi lo stil più che 'l suo dolce e caro;
al vostro stil, dov' io ch' al mondo imparo
a riverir la chiara virtù vostra,
ch' oggi solinga l' universo giostra
non trovando di lei pregio più chiaro;
sì come un picciol lume alta chiarezza
vince, così con vostre lodi sole
lei vincete in virtute e in bellezza;
l' alto motor come 'l ciel ornar vole
la terra, piacque a sua reale altezza
Far Vittoria una Luna e Tullia un Sole.[122-1]
[p. 123]
55. Di Lattanzio De' Benucci
Se per lodarvi e dir quanto s' onora
di voi natura e 'l ciel, Tullia gentile,
fosse eguale al soggetto in me lo stile,
e 'l saper pari a l' alta voglia ancora;
forse non tanto il secol nostro indora
vostra virtute, e non dal Gange al Tile
fate voi co' i begli occhi eterno aprile,
quant' io n' avrei grazie e favori ognora.
Non può ingegno mortal tante divine
virtù ritrar; nè può basso disìo
scolpir parti sì eccelse e pellegrine,
che 'n voi il valor del vago petto e pio
avanza ogni pensier, passa ogni fine,
non che l' aguagli altrui parlare, o mio.
[p. 124]
56. Dello stesso
O fiumicel se 'l più cocente ardore
estivo il lento tuo correr affrena,
e la tua profonda umile arena
incende e fa restar priva d' umore;
ecco a le rive tue novo splendore
che l' aer d' ogni intorno rasserena:
di colei, che cantando in dolce vena
a le nove sorelle aggiunge onore.
Onde il vecchio Arno ormai d' invidia pieno
lascia l' usato corso e a te rivolto,
quivi perde le chiare e lucid' onde;
godi, or che vedi entro il tuo ricco seno
la imagin bella del leggiadro volto:
e Tullia odi sonar ambe le sponde.
[p. 125]
57. Dello stesso
Deh, non volgete altrove il dotto stile
altera donna, ch' a voi stessa, poi
che scorge il mondo esser accolto in voi
quant' ha del pellegrino e del gentile.
Appo questo suggetto incolto e vile
divien qual più pregiato oggi è tra noi:
e co 'l splendor de' vivi raggi suoi
chiaro si mostra ognor da Battro a Tile.
Voi dunque di voi sola alzare il nome
dovete, poi ch' a sì pregiato segno
giunger non puote il più purgato inchiostro.
Quindi vedrassi apertamente come
non è di lode altri di voi più degno;
nè stil che giunga al dolce cantar vostro.
[p. 126]
58. Di Latino Giovenale
Vide già la famosa antica etade
nel palazzo reale alto di Roma
donna empia sì, che fe' del carro soma
al padre anciso, e spense ogni pietade.
Vede or donna real di tal beltade
la nostra, e Roma, e da colei si noma;
che chi mira i begli occhi e l' aurea chioma
di piacer, d' amor empie e d' umiltade.
Questa sol per mio ben, per mio sostegno
al mio imperfetto, a la fortuna avversa
diede natura, e 'l ciel cortese e largo.
O gloria de le donne, o ricco pegno
d' onor, d' ogni virtù ch' oggi è dispersa:
deh! perchè non ho io gli occhi ch' ebbe Argo?
[p. 127]
59. Di Ludovico Martelli
Voi, che lieti pascete ad Arno intorno
il vostro gregge fra leggiadri fiori,
godete, poi che da i superni cori
discesa è Tullia a far con voi soggiorno
sforzisi ognun co 'l crin d' alloro adorno
gli altari empir de i più soavi odori;
che per costei vostri tanti alti onori
faranno ancor a voi degno ritorno.
Quest' è la vaga pastorella, ch' ebbe
fra i più degni pastor del Tebro il vanto;
del cui partir restar sì afflitti e mesti;
e poi che per voi sol non le rincrebbe
lasciar le rive ove fu in pregio tanto,
siate a cantarla e a riverirla presti.
[p. 128]
60. Di Simone Dalla Volta
Tullia, mostrò (?), miracolo, Sibilla,
di cui si maraviglia il mondo e gode:
mar di saver, che non ha fondo o prode,
e mena l' onda sua lieta e tranquilla.
Da cui sì dolce umor, sì chiaro stilla
di virtù vera ch' oggi rado s' ode:
cui non guasta fortuna, o 'l tempo rode;
men che quelle di Saffo e di Camilla.
Ma che dico io? Il vostro alto valore
non si può comparare a cosa alcuna:
perchè non che 'l poter, passa il disio.
Chi vuol vivo vedere in terra amore,
divin, pien di virtù, miri quest' una,
vera amica de gli angioli e di Dio.
[p. 129]
61. Di Camillo Da Monte Varchi
Mosso da l' alta vostra chiara fama,
di cui per tutto il mondo il grido suona,
vengo cantarvi anch' io Tullia Aragona,
cui chi più sa, più sempre ammira e ama.
E s' adempir potessi ardente brama
di salir l' alto monte d' Elicona,
qual voi n' arrecherei degna corona,
ch' al ciel vi porta, che vi aspetta e chiama.
Or voi più d' altra saggia e più gentile,
degnate di pigliar quanto vi porge
un ch' a voi consacrato ha ingegno e stile.
Ben so, vostra mercè, ch' altera e vile
alma tanto non è, che quando scorge
d' essere amata non divenga umile.
[p. 130]
62. Di Claudio Tolomei
Quando la Tullia mia che vien dal cielo,
che d' altronde non può sì bella cosa,
umilemente altera e disdegnosa,
toglie al mondo 'l suo sol con un bel velo;
allora agghiaccia 'l fuoco ed arde 'l gelo,
e Amor tremando l' armi in terra posa,
vertù si fugge e cortesia sta ascosa,
e spegnesi ogni ardente onesto zelo.
Ma s' avvien poi che a le tranquille ciglia
ridendo levi il velo, allor più incende
il foco e 'l ghiaccio è freddo in ogni parte;
virtù ritorna e Amor l' armi riprende
ch' ella governa, e non è meraviglia
ciò che può far 'l ciel, natura ed arte.
Sta nel: Libro quarto delle rime di diversi eccellentissimi
autori nella lingua volgare nuovamente raccolte.
In Bologna, presso A. Ciccarelli 1551, pag. 217.
[p. 131]
63. Di Antonio Grazzini (Lasca)
Se 'l vostro alto valor, Donna gentile,
esser lodato pur dovesse in parte,
uopo sarebbe al fin vergar le carte |